Negli incontri di formazione mi capita di utilizzare qualche parola in inglese. E in genere qualcuno dei partecipanti chiede (si chiede?) come mai sia essenziale l’introduzione di termini ‘esotici’. Ci sono certamente ragioni diverse.
Una potrebbe essere che attraverso un “post-it” qua, uno là, mi accredito come conduttore navigato e cosmopolita. In altri casi il termine appartiene a un sottocodice tecnico o gergale e ‘semplicemente’ – se i parlanti ne condividono la pregnanza – serve a condensare molteplici conoscenze in una formula sintetica. Altre volte una spolverata di inglese copre le imperfezioni della ciambella (conviene allora esagerare: qualche bollicina di francese e un ‘danke’ a fine incontro, e via verso nuove avventure).
Vorrei però segnalare un uso curioso dell’inglese, che mi sembra scorrere tra un inconsapevole desiderio di persuasione e un irremovibile imbarazzo.
Ho sentito dire da un dirigente pubblico che gli uffici dovranno lavorare per promuovere la user education [Echeé? – Whaaat?]. In sintesi per dire che è necessario informare gli utenti, spiegando a chi accede al servizio come utilizzarlo, si introduce la formula innocentemente english ‘user education’. Gli utilizzatori (di)verranno educati (né abilitazioni, né empowerment, ma una sana educazione).
Un secondo modesto esempio di finezza lessical-relazionale: in una delibera, anziché dire che la società di consulenza riceverà una percentuale sul valore del finanziamento che l’amministrazione otterrà grazie all’intervento di consulenza tecnica, trovo scritto (tra parentesi incidentale): ‘3% di success fee’. Provate a leggerlo con accento inglese ‘sacses fii’, riprovateci ‘sacses fii’, ‘sacses fii’, ‘sacses fiiii’… Non suona intrigante, piacevole, desiderabile? L’inglese ci convince, ci ammalia, a volte ci educa. Do you agree?
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