Largo ai giovani? Beh, sì certo. Anche se…
Tra i giovani colleghi/e con cui mi capita di lavorare qualcuno parla dei 40enni come di vecchi… (da questo punto di vista io sono già un grande-anziano)…
Altri giovani chiedono (legittimamente) di avere spazio: rivendicano rappresentanti politici che abbiano meno di 30 anni (dai 30 in poi si arguisce che non si è più giovani)…
Qualche giorno fa un dirigente, riferendosi a un collega trentacinquenne, ha detto: “se anche non diventa direttore generale quest’anno… niente di male. In fondo se fa ancora un po’ di esperienza non succede niente, anzi…”
Nelle organizzazioni accade che i colleghi più anziani (professionalmente) parlano dei giovani colleghi come di persone poco preparate e poco motivate…
I giovani invece si sentono ai margini, raccontano di avere poche possibilità di parola, di essere poco riconosciuti e valorizzati. Ed è così: “finita l’università, mi aspettavo ci fosse qualcuno disposto a riconoscere il mio percorso, ma alla fine sono al terzo stage sottopagato”…
Qualcun’altro dice anche che viviamo in una ‘seniocrazia’: comandano i vecchi, e non c’è scampo (salvo attendere)…
In ogni caso le categorie descrittive (e interpretative) sono: ‘giovani’ vs. ‘vecchi’.
Possibili possibilità?
Quali sono i modi per fare largo? (O largo a chi?)
Le quote rosa? Le quote under-trenta? Le quote over-60?
E che dire allora di una generazione numerosa ma compressa fra senior che non mollano e giovani che incalzano? Quote anche per il 30-60enni? Le quote per le mamme? Le quote per gli stranieri?
Quali sono le rappresentazioni in circolo?
Cosa segnalano le rivendicazioni di spazio? I giovani e i vecchi. Gli uomini e le donne. Le bionde e le more. Gli italiani e gli stranieri. Le psicologhe e le assistenti sociali. I medici e le infermiere. Gli avvocati e i notai. I commercianti e gli imprenditori… Noi e gli altri. Non so quanto il pensiero dicotomico aiuti. Forse è un modo per avviare discorsi che altrimenti, per la loro complessità, non sarebbero facilmente proponibili. Le affermazioni per macro-categorie mi sembra segnalino forti percezioni di esclusione, la mancanza di attenzione e di prospettiva… (un po’ per tutti?). Costituirsi in categorie generalissime segnala anche il timore di essere insidiati (o esclusi): ci si raccoglie sotto un’etichetta in modo per rendersi visibili. La realtà sembra così infinitamente più complessa rispetto a queste etichette simil-sociologiche. E come strategia di affermazione potrebbe non portare al risultato che insegue.
Salti e divari?
Se le persone che hanno esperienza si ritirano di colpo, lasciano certo spazio, ma mettono anche in difficoltà (ho in mente alcune esperienze). Le cesure non sempre sono auspicabili. Va da sé che se non si aprono spazi non possono entrare in campo energie, prospettive, idee, competenze… Quello che noto è una certa fatica a tenere insieme le fragilità e i punti di forza degli altri. A riconoscere che ciascuno porta esperienze e competenze. A immaginare un progetto per far interagire le risorse e gli apporti di ciascuno, provando a minimizzare le debolezze. Forse, più che un progetto di alternanze per discontinuità, potrebbe essere più interessante pensare ad un processo per varietà e continuità?
Recent Comments