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Pensieri, esplorazioni, ipotesi. Un confine incerto tra personale e professionale.

Classificare, qualcosa di più

Sono impegnato in due diverse consulenze che hanno in comune la costruzione di schemi di rendiconto. In un sistema di organizzazioni territoriali serve l’impianto di un rendiconto previsionale economico, organizzativo e sociale. In un’altra organizzazione, più piccola, si tratta di redigere il bilancio sociale sulla base di uno schema stabilito.

In questo secondo caso, da un lato è saggio attenersi alle disposizioni istituzionali, al punto da non divergere dalla strutturazione stabilita quasi neppure forzandone la titolazione o la disposizione degli argomenti. E in questo piegarsi si avverte la costrizione poco rispondente alle questioni da rendicontare, alla complessità dei problemi, alle esigenze espositive. Vorremmo poter accogliere i suggerimenti della linea guida che dobbiamo seguire con maggiore libertà, vorremmo poter cogliere il senso delle domande e ad esse rispondere. Ma avvertiamo una intrinseca contraddizione nella disposizione normativa: l’imperativo cortocircuitante che ci impone di essere liberi: esserlo o non esserlo? Alla fine ci pare che questa rigida struttura denunci un’incongruità nel disporre ed accostare le questioni da affrontare. Si tratta di un impianto classificatorio che non sembra reggere alla prova della rendicontazione.

Nel primo caso invece la partita è interessante, in modo diverso. Le regole sono più lasche, maggiori i gradi di libertà: si tratta di costruire uno schema che fissi un piano per il futuro (operazione più che ambiziosa), che assegni le risorse con una qualche logica che consenta a diversi organi istituzionali prima – e a diverse persone poi (dirigenti, responsabili, operatori) – di trasformare un progetto solo bidiensionale in azioni sensate volte a scopi utili, che aiuti – a tempo debito – settori e servizi a utilizzare le risorse economiche per raggiungere risultati di benessere , che aiuti, direttamente o indirittamente, persone in difficoltà. Costruire un rendiconto preventivo con il relativa documento esplicativo che lo accompagna, lo illustra, lo rende intelligibile motivandone le scelte non è cosa semplice. In particolare se il primo scopo di un modello d’uso è quello di raccogliere il consenso che ne legittimi la traduzione in pratica.

Insomma in entrambi i casi prendo parte ad un lavoro di riclassificazione.

Tornando in treno da un incontro di consulenza leggevo Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz (Feltrinelli, 2003, edizione originale 2002). A pagina 32 mi sono imbattuto in un capitolo che sembrava scritto per me. Scritto a me. Lo riporto quasi integralmente. Ancora stupito.

Avrò avuto sei anni, quando arrivò nella mia vita un grande giorno: papà liberò per me un piccolo spazio in uno dei suoi scaffali di libri, e mi permise di disporre lì i miei. A dire le cose come stavano, concesse una trentina di centimetri, cioè più o meno un quarto dello scaffale più basso. Io abbracciai tutti i miei tomi, che sino a quel giorno erano rimasti adagiati sullo sgabello accanto al letto, li portai così sino alla libreria di papà, e li disposi in piedi, per benino, il dorso rivolto al mondo esterno e il volto contro il muro.
Fu una cerimonia di iniziazione, un rito vero e proprio: una persona i cui libri stanno dritti in piedi non è più un bambino ma un uomo, ormai. Ormai, ero come papà. I miei libri stavano in piedi.
Commisi però un errore imperdonabile. Papà andò al lavoro, e io mi ritrovai libero di fare ciò che meglio credevo, in quel mio territorio sullo scaffale: ma avevo un concetto assolutamente infantile di come procedere in merito. E così avvenne che ordinai i miei libri per altezza, anche se i più alti erano proprio quelli che godevano ormai della mia più bassa considerazione, dal momento che erano semplificati, in rima, con le figure: erano insomma quelli che mi si leggeva quand’ero piccolo. Feci in quel modo perché volevo riempire tutto lo spazio che mi era stato concesso sullo scaffale. Volevo che il mio angolo di libri fosse zeppo e ridondante, che tracimasse, proprio come quelli di papà. Ero ancora all’opera, quando lui tornò dal lavoro, gettò un’occhiata sconvolta al mio scaffale e poi, nel più assoluto silenzio, mi fissò lungamente, con uno sguardo che non dimenticherò mai: uno sguardo di un disprezzo, di una delusione così amari che non c’era verso di esprimerli a parole. Uno sguardo di totale disperazione genetica. Alla fine, sibilò a denti stretti: “Mi vuoi dire, per favore, sei completamente impazzito? Per altezza? I libri sono forse dei soldati? Sono forse una scorta d’onore? La banda dei pompieri?”.
Poi tacque ancora. Fu un silenzio tenace e tremendo, da parte di papà, un silenzio alla Gregor Samsa, come se per lui mi fossi trasformato in uno scarafaggio. Da parte mia, invece, venne un silenzio di colpa, come se fossi davvero sempre stato un meschino insetto la cui vera natura solo ora veniva alla luce, e tutto era perduto per sempre.
In fondo a quel silenzio, mio padre mi rivelò durante i venti minuti che seguirono tutte le faccende della vita. Mi iniziò al sommo segreto nel mondo della biblioteconomia: mi svelò sia la via maestra sia i sentieri nel bosco, i panorami vertiginosi delle variazioni, delle sfumature, delle fantasie, viali isolati, ardite tonalità ma anche eccentrici capricci: i libri li si può ordinare per titolo, in ordine alfabetico per autore, per collana o editore, cronologicamente, per lingua, argomento, genere e contesto, e persino per luogo di edizione. Tutto è possibile.
Così appresi i segreti della sfumatura: la vita è fatta di itinerari diversi. Ogni cosa può accadere così ma anche altrimenti, secondo partiture diverse e logiche parallele. Ogni logica parallela è di per sé coerente e consequenziale, a suo modo conchiusa, indifferente a tutte le altre.
Nei giorni che seguirono dedicai ore e ore di lavoro alla mia piccola biblioteca, venti o trenta libri che sistemavo, aggredivo come fossero stati un mazzo di carte e mescolavo per poi ordinarli di nuovo daccapo, secondo i criteri più diversi.
E fu così che imparai dai libri l’arte della combinazione: non da ciò che avevano scritto dentro, bensì dai libri stessi, cioè dalla loro essenza fisica. I libri, insomma mi fecero conoscere gli spazi sterminati, la zona d’ombra che sta fra il lecito e il proibito, fra la normalità e l’eccezione: questa lezione mi accompagnò per lunghi anni. E ora che arrivai all’amore, non ero più un perfetto principiante: sapevo invece che esistono combinazioni diverse, che c’è l’autostrada ma c’è anche la strada panoramica, ci sono i sentieri sperduti, mai percorsi da nessuno. Che c’è un lecito che è quasi proibito, e un proibito che è quasi lecito. Di tutto e di più.

Sì, lo so, ho contravvenuto all’impegno con me stesso (e con chi visita il blog) di essere breve.
Ma le mie considerazioni non sono poi lunghissime.
Amos Oz invece si legge d’un fiato.

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