Ritorno sul punto (e ci ritornerò ancora).
La fatica di scrivere dipende (appare stancamente ovvio a dirsi) anche dalle nostre aspettative.
Cioè siamo noi che la generiamo.
E la alimentiamo, convincendoci che scrivere è un’attività poco più che meccanica (ma non è così, sia chiaro).
Questo il punto che provo ad esplorare (fuggevolmente).
E per farlo mi aggrappo ad una citazione che sfilo da Le perfezioni provvisorie di Gianrico Carofiglio, Sellerio, 2010, pag. 237-238 (seconda edizione gennaio 2010, senza parole!-).
Ma prima un brevissimo ricordo, sulla falsa riga delle molte digressioni nel passato con le quali Carofiglio dilata il tempo del suo romanzo (mi accodo e gli faccio il verso).
Ecco il ricordo.
Alle superiori una compagna di classe – quando la mattina le si chiedeva se avesse studiato, ripassato, tradotto, o altro –, rispondeva (semplicemente, senza tirarsela) che aveva studiato guardando la tele.
La cosa mi inquietava.
Mi sembrava una performance inarrivabile.
Provavo e riprovavo e finivo col guardare la tele (omettendo di studiare, obviously).
Non ho mai afferrato come fosse (sia) possibile studiare e guardare uno schermo animato.
Anche adesso basta che mio figlio piccolo si metta a guardare un cartone che dopo un attimo lo sto guardando anch’io.
Ma anziché decretare la superiore anomalia delle mia compagna di classe, mi ostino a ripensare a quale particolare dote (o superpotere) potrebbe rendermi multitasking.
Mi arrovello e quasi mi pare impossibile non afferrare l’arcano.
Ci sarà qualcosa che mi sfugge: dipende solo da me, da quanto mi applico, dalla mia volontà…
Sono io che non ci arrivo, non mi impegno, non raggiungo l’illuminazione.
E no!
Gli umani non riescono a studiare, leggere, pensare… guardando un film o un programma alla tele, salvo non si intenda dire che seduti sul divano e grazie a uno schermo animato trovano uno stato di concentrazione che li isola in loro stessi (ma quanti superesseriumani ci sono così)?
Quindi basta senso di inadeguatezza.
Non è possibile, salvo avere qualche sconnessione (col massimo rispetto per la compagna di classe, che nel frattempo si è fatta donna e valente professionista e madre amorevole e allegra sposa).
Fine del ricordo.
Ecco la citazione.
“Mi immagino un avvocato bravo come uno capace di darsi una disciplina, uno che se deve scrivere qualcosa – un appello, faccio per dire, o una memoria – si siede alla scrivania e semplicemente non si alza se non ha finito. Io invece mi siedo, e scrivo qualche frase. Poi mi sembra di avere completamente sbagliato l’impostazione e m’innervosisco. Allora mi metto a fare qualcosa d’altro, ovviamente meno importante e urgente. Oppure addirittura esco, vado in libreria e mi compro un libro. Poi torno e mi metto a scrivere, ma così, svogliatamente, e lascio passare il tempo fino a quando non arrivo all’ultimo momento ed è allora che stringo e scrivo e produco. Ma ogni volta ho l’impressione di avere tirato via quello che ho scritto. Di imbrogliare il mio cliente. E in generale, di imbrogliare il mondo.”
pag. 237-238
Gianrico Carofiglio, Le perfezioni provvisorie, Sellerio, 2010.
Ora cosa mi suggerisce l’estratto?
Intanto (da dentro un romanzo) ci parla della scrittura professionale: è difficile scrivere per cavarci da vivere! Il desiderio di autodisciplina può tradirci. Siamo esseri passionali, distraibili, insicuri, incerti nel nostro incedere, vanamente esigenti, e ancora di più quando lasciamo spazio alle smodatezze del super-io. Scrivere chiederebbe concentrazione, ma anche rilassatezza, tempo e andar per vetrine (interiori o cittadine fa lo stesso).
Alla fine le scadenze aiutano, concentrano, vincolano, contengono lo straripare delle emozioni. Carofiglio (il suo personaggio Guido Guerrieri, dal nome che è un programma d’azione) non spiega però cosa renda difficile essere quello che si vorrebbe essere e non si è. Non sappiamo se tutto dipende dalla psicologia o dalla complessità intrinseca del processo scrittorio.
E se scrivere fosse proprio tagliare via (togliere, scavare, eliminare)? E anche ingannare e ingannarsi? E se scrivere fosse dominarsi per non cedere (immediatamente) al desiderio di dominare il disordine? Se scrivere fosse tempo, richiedesse tempo, e lasciare che dall’inconscio non esacerbato affiorino soluzioni accettabili?
E se scrivere fosse autoinganno?
…forse lo scrivere è autoinganno quanto lo è un’immagine riflessa su una superficie mobile, tipo acqua….oppure un po’ labile, come il vetro di una finestra. Essendo noi schermo ed immagine allo stesso tempo, l’autoinganno è quell’andirivieni continuo tra coincidenza della riproduzione e difficoltà a far combaciare ogni singolo punto. DI questo ci accorgiamo bene nell’intimità dello scrivere, nell’eseguire un compito…ma pensate allo scrivere appunti riportando quello che un altro sta dicendo….oppure alle notazioni a margine di un prendere appunti….o alla sistemazione di appunti, alla versione in prosa di una poesia, al riassunto di un testo….anche se lo scrivere più puro, in cui l’autoinganno si da come valenza morale (fatto bene, fatto male) è il dettato: la parola dell’altro che va riportata fedelmente ed il compito è tutto in questa fedeltà ed aderenza. Nessun pensiero proprio, concentrazione sulla grafia, trasformazione del parlato in segno scritto. Da questo punto in poi (dalla prima elementare!!) lo scrivere si fa rincorsa impossibile della precisione, si innesta sui nostri stili di vita (ma non per tutti, moltissimi la abbandonano ….), si mescola e si lascia mescolare…tutt’altro che una questione tecnica o artistica…
v
Riguardo al tema della concentrazione, mi è venuta in mente una battuta del film IL DIVO. La moglie di Andreotti che descrive suo marito non tanto come intelligente, geniale, malefico, ma come una persona capace di concentrazione, e con molta memoria…
Io facevo i compiti di tedesco guardando Heidi, speravo che la signorina Rottenmeier potesse portarmi bene… quell’anno sono stata rimandata in tedesco.
Forse avrei fatto bene a fare i compiti senza tele e a non fidarmi della signorina Rottenmeier.