Scrivere a volte è estenuante. Non si va da nessuna parte e quel che si produce non appaga. Per niente. A volte ci si inchioda e si sta fermi lì, irritati, delusi, fin preoccupati delle proprie capacità. [E non si va da nessuna parte.] Di questa fatica, di questa attesa, di questa inconcludenza è buona educazione non parlare. Lasciamo correre, non ci metterebbe in buona luce, darebbe di noi un’immagine fragile. Scrivere è fronteggiare un susseguirsi di fragilità, di cose che non si sanno, non si capiscono, non centrano, non collimano, non fanno parte del disegno, sfuggono, mancano, non si sospettano.
Hillman, nei controcanti (digressioni come le nomina nel libro) che intervallano, contrastano e riconsiderano le argomentazioni del libro, propone, quasi en passant in forma confidenziale un accostamento tra scrivere ed entrare (essere) in guerra. Estrapolo la citazione e provo a commentarla trasformandola in una sorta di decalogo.
Scrivere per me è sempre una sorta di campagna militare. Confesso che lo affronto con metafore militari. C’è una strategia, una concezione generale, e via via tutta una serie di tattiche. Se sei bloccato, mai chiuderti in trincea; continua ad avanzare. Mai cercare di espugnare una roccaforte prendendola d’assalto o disponendo un assedio. Giraci intorno e con il tempo cadrà da sola. Niente battaglie campali con le voci interiori di sabotatori, disfattisti, avversari. Una scaramuccia, un rapido lancio di frecce e via, nel folto del paragrafo successivo. La vulnerabilità, la scarsità di risorse vanno mimetizzate con coreografiche parate e squilli di tromba (non dimenticare che anche gli altri sono altrettanto vulnerabili). Saccheggia i magazzini del pensiero, ammoderna vecchi materiali e usali per rinforzare le linee. Abbandona il terreno che non puoi sfruttare, ma se stai inseguendo un argomento, annettiti tutti i territori che puoi.
pp. 27-28
James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano, 2005 (ed. or. 2004).
Scrivere per me è sempre una sorta di campagna militare.
Anche per me. Ci penso, mi figuro le parti, i nuclei, gli snodi, la logica e il disegno. Poi rimando, mi sento incerto, impreparato. A volte non mi ricordo neppure più le ragioni della guerra: perché mai si doveva combattere? Per quale obiettivo, premio, trofeo, territorio, razzia? Mi troverò solo in battaglia? Avrò risorse, energie, rifornimenti? Avrò la forza?
Confesso che lo affronto con metafore militari.
Già quali sono le metafore attraverso le quali penso e sono ingaggiato da questa quotidiana attività (desiderata e allontanata)? Scrivere è affondare, affogare, perdersi (sempre metafore mare-viaggianti?). Via, un po’ di fantasia (di verità) quali metafore mi sorreggono? Ci devo pensare.
C’è una strategia, una concezione generale, e via via tutta una serie di tattiche.
Una strategia generale in cui la presente scrittura si inserisce, che contribuisce a sviluppare, a prendere forma è se la scrittura ha un suo disegno? E se fa parte di un disegno o se è il disegno dovrebbe essere possibile articolare, prefigurare, dispiegare le parti di cui si compone l’intero sviluppo… Ma se la strategia è solo un’idea, un abbozzo? Se la scrittura rispondesse ad un konzept evanescente e sfuggente, se non ci fosse (stato) tempo per ragionare dell’intera partita? Se passassi di tattica in tattica? Se la strategia fosse una finzione o un autoinganno tacitante?
Traducendo e concretizzando: la scrittura fa pare di un testo più ampio, è lo sviluppo di un discorso di cui è possibile tracciare i confini, illustrare i contenuti, motivare le intenzioni? La scrittura a cui si è intenti dispone di un indice, un piano di redazione, uno schema di lavoro?
Se sei bloccato, mai chiuderti in trincea; continua ad avanzare.
Sì, sono a corto di idee… qualcosa scrivo, sto in allerta, torno indietro, sviluppo un pensiero, cambio una parola, mi alzo, non mi alzo, inizio un capitolo nuovo, faccio un piccolissimo passo avanti. Piuttosto la bibliografia, piuttosto collego i titoli e faccio il sommario automatico. Ecco si affaccia un piccolo spunto, trascurabile, lo prendo, non me lo lascio sfuggire. Spezzo in due un periodo: due idee, aggiungo due aggettivi, un avverbio, riequilibrio, metto ordine. Non demordo.
Mai cercare di espugnare una roccaforte prendendola d’assalto o disponendo un assedio.
Inutile insistere. Certe questioni sembrano insondabili. Pareti inaffrontabili. Faccio un esempio. In un percorso formativo sul benessere (e sul malessere) organizzativo, un partecipante che ha responsabilità intermedie nella sua organizzazione ha chiesto: “come si possono attivare le autorità apicali sul tema delle condizioni di lavoro?”. Spiazzato
Giraci intorno e con il tempo cadrà da sola.
Passo oltre. Non scatta un’idea. Non scatta l’emozione. Attendo, sarà per dopo, quando starò facendo altro… Gli elementi da sviluppare mi verranno incontro, casualmente. Confido nella buona sorte, cerco di riservare del tempo, e sto all’erta.
E così è: a proposito della strategia, per caso afferro un ragionamento tra due interlocutori… Uno dice all’altro: “la strategia muta al mutare delle condizioni di contesto. La strategia cambia e si adatta alle mosse dell’avversario”. Ecco questa è un’idea in più, per il paragrafo precedente. Qualcosa a cui non avevo pensato. Uno spunto da sviluppare.
Niente battaglie campali con le voci interiori di sabotatori, disfattisti, avversari.
Frana la costruzione, non collimano le parti, il tutto non tiene. Abbandono. Altri hanno già lavorato al tema. Non ho tempo. Le argomentazioni sono fragili. Il tono includente, le frasi contorte. A chi interesserà? Cosa penseranno i miei colleghi? Cosa penseranno i destinatari che leggeranno questo testo?
Una scaramuccia, un rapido lancio di frecce e via, nel folto del paragrafo successivo.
Benché alcuni non apprezzino un semplice punto elenco, semplici idee in successione, a me non dispiace cavarmela così. E poi, se riesco a disporre tre o quattro nuclei (anche solo parole), le guardo, le osservo, con calma. Poi il quadro si riordina: tiene o non tiene. Anyway, questo è quello che posso proporre. Questo ho, adesso.
La vulnerabilità, la scarsità di risorse vanno mimetizzate con coreografiche parate e squilli di tromba (non dimenticare che anche gli altri sono altrettanto vulnerabili).
Come ho fatto qui: un lavoro con scarsissime risorse, tempo, pensiero. Si possono arricchire i testi con accorgimenti, quinte, sfondi… Oggi non avevo nulla. Semilavorati inadeguati, materiali del passato fuori contesto, cose a metà che chiedevano troppa concentrazione per essere, post che per essere chiusi richiedono letture a approfondimenti…
Saccheggia i magazzini del pensiero, ammoderna vecchi materiali e usali per rinforzare le linee.
Come per questo post. La citazione da Hillman giaceva da tempo, inutilizzata ma archiviata.
Abbandona il terreno che non puoi sfruttare, ma se stai inseguendo un argomento, annettiti tutti i territori che puoi.
A volte conviene lasciar perdere. Le intuizioni, i guizzi, le uste possono non bastare. Ma se si decide per l’affondo, si può procedere per gradi, passo a passo. Sulla fatica di scrivere non lascio perdere (scrivere è combattere, contro se stessi). Il piano è rintracciare le note a margine di autori diversi e ricostruire un quadro di voci, di problemi, di reazioni… una truccologia della scrittura.
lì per lì, la metafora bellicosa (e dopo pochi istanti il metaforizzare come attività di comprensione) mi è stata subito molto stretta. poi ho lasciato un po’ andare la tensione del pregiudizio, quel valutare rapido e definitorio, ed ho scoperto (letteralmente) un post riccoricco, che indica con il dito posti dove andare, paesaggi incantevoli, burroni, alberi da frutto, piante velenose, dinosauri che brucano erbetta e scorpioni giganti che scavano tane nelle montagne. pettirossi che cinguettano e avvoltoio che ridono.
credo sia così perchè dice (senza metafore) della fatica e dell’affrontarla (la fatica non si da mai se non nel darsi, nel provarla…) rispetto allo scrivere, al mettersi lì davanti a qualcosa che non c’è per farlo essere. DIce di una ricerca e di uno sforzo. condivisa da molti. ma da molti anche facilmente evitabile.
Mi voglio impegnare a lavorare dentro questo testo di Graziano. intanto aggiungo soltanto questo: non si da potere alla scrittura (non si può riconoscere la sua forza), se non è istituito un adeguato contesto che dia valore alla scrittura stessa. La letteratura, il diritto, il diario, la poesia, il progetto di gara, l’appunto da tenere in tasca. E banalmente questo istituto (qualunque sia e con forme diverse) definisce e fa essere un tipo specifico di lettore, inteso come colui che, nei modi previsti, utilizza la scrittura. E’ lettore il giudice. è lettore la prof d’italiano. è lettore l’acquirente di romanzi. ognuno fa un uso diverso della scrittura e lo fa dentro un ambito, in qualche modo, già definito, in cui la scrittura viene ad avere effetti di verità diversi.
adesso dovrò passare le prossime ore nelle seguenti scritture: 2 progetti di formazione per educatrici servizi per l’infanzia ed assistenza scolastica minori in situazione di disabilità; lettura e commento e proposte relative ad una delibera regionale sull’integrazione socio-sanitaria; varie mail di argomento diverso (elezioni cda, carte dei servizi, residenzialità persone disabili, ….); lettera ad assessore in merito a finanziamenti estivi per centri giovanili; trascrizione appunti presi in mattinata presto su di un foglietto infilato in tasca. se per ognuna di queste cose non avessi un ‘mondo’ ed una ‘storia’ che vi fanno riferimento (a cui faccio riferimento), la mia scrittura sarebbe coem fuochi d’artificio accesi tenuti in tasche dei pantaloni troppo strette!
ps: e se dalla metafora della guerra ci spostassimo alla metafora (che poi non sarebbe metafora ma co-funzionamento…) del gioco e del giocare? dal piacere all’oggetto transizionale alle regole condivise alla loro violazione al gruppo ….ci si sta dentro, no? e chi l’ha detto?
v
Ciao Vittorio,
senza parole, senza fiato, senza tempo.
Ragiono sul gioco.
A volte sono (siamo) a corto di metafore.
Tra le scritture anche questi dialoghi (non sono i primi) hanno una loro capacità di rigirare le cose e farle brillare (e a me di farmi pensare e gioire:-)
In ogni caso la tua scrittura è davvero un fuoco d’artificio acceso, tenuto in tasche strette… quasi una riflessione esistenziale:-)