Diciamo “coordinatori”, e pensiamo a persone che fanno lavori difficili. Per esempio:
“Coordinatore” ha almeno due significati generali.
I due significati non sono solo differenti, ma in tensione dialettica tra loro. Non è detto che siano contraddittori, ma possono esserlo in circostanze concrete.
Far valere agli occhi di altri un ordine considerato necessario od opportuno è cosa diversa che cercare insieme a loro un ordine che stia bene a tutti.
Attenzione, non si tratta qui della contrapposizione tra stili autoritari o democratici del coordinamento: la tensione tra i suoi due significati travalica questa distinzione. Non si tratta del modo di esercitare o di legittimare il potere, ma di ciò che la dinamica stessa del potere comporta.
Perché l’ordine, qualsiasi ordine, e tanto più l’ordine ben oliato della democrazia, comporta sempre potere, e quest’ultimo comporta essenzialmente la possibilità o la realtà del conflitto. Cioè la resistenza all’ordine, il desiderio o il rimpianto di un ordine diverso, o del disordine stesso, che pure qualche volta ci affascina fortemente.
La tensione tra i due significati divergenti del coordinare comporta che ci può accadere di chiedere ai coordinatori cose contraddittorie: di essere punti di riferimento per tutti, autorevoli e credibili guide, convinti della bontà di ciò che fanno; o viceversa di tendere alla invisibilità, di esercitare un ruolo di puro servizio della comunicazione.
Bene: esprimiamoci pure in termini di teoria della comunicazione. Quali funzioni comunicative ci immaginiamo che debba presidiare soprattutto un coordinatore?
Purché non richiediamo al coordinatore di svolgere tutte queste funzioni, o almeno non tutte insieme… Altrimenti sarà probabilmente imprigionato in un doppio legame: sii potente, ma senza ambizione, sii invisibile, ma onnipresente, sii comprensivo, ma detta regole che valgano per tutti.
Forse non è possibile evitarli del tutto, tuttavia ancorarsi alle singole realtà, ascoltando i problemi e i bisogni di organizzazioni concrete potrà aiutare a non drammatizzarli.
Coordinare è giocare un ruolo nell’organizzazione.
Che ruolo è mai quello del coordinatore? Non un dirigente, che sta sopra, non un compagno di lavoro, del tutto al mio livello: il coordinatore abita due mondi, qui sta un’altra radice della complessità del suo ruolo, il coordinatore abita sia la dimensione verticale del potere sia quella orizzontale della collegialità. Un luogo liminare. Anche la scena è un luogo liminare, tra la realtà dietro le quinte (o fuori dal teatro) e la platea dove chi recita viene giudicato. Il ‘ruolo’ infatti fa pensare al teatro: si gioca un ruolo un po’ come si recita una parte.
Non stiamo parlando della rappresentazione di un copione totalmente vincolante, in cui ogni battuta non può essere che ridetta come è scritta. Nelle organizzazioni si recita a soggetto.
Un buon attore entra nella parte, ma senza identificarsi con essa. Riflettere sul ruolo comporta un qualche grado di coinvolgimento personale, anche se non si è mai identici al ruolo che si gioca. È bene che un coordinatore lo ricordi, se non vuole rimanere strangolato dai doppi legami che sembrano definirne la parte. Ogni tanto (ogni giorno) è vitale ristabilire una distanza tra sé e la propria maschera.
Non si recita il proprio ruolo da soli, ma con altri, verso cui si hanno aspettative e che ne esercitano a loro volta nei nostri confronti. Con chi giocano il loro ruolo i coordinatori? Chi sono i soggetti con cui devono collaborare? Un consiglio operativo: in ogni situazione concreta, un coordinatore può disegnare la mappa dei suoi portatori di interesse. Si tratta di vedere quanto sono prossimi o remoti, quali poteri esercitano su di noi, con quale urgenza e legittimità. Dall’altra parte si tratta di chiarire quali aspettative esercitano nei nostri confronti, e di quali aspettative li investiamo. La sintonizzazione delle aspettative potrebbe facilitare un gioco felice ed efficace dei ruoli rispettivi.
Un’altra condizione perché la recita funzioni, è naturalmente che la vicenda, i compagni, gli strumenti di scena e così via sia ben conosciuti, e che inoltre l’attore abbia le capacità di recitare, danzare, e fare insomma i gesti giusti nel giusto momento. L’arte si impara, per quanto esserci portati costituisca naturalmente un bel vantaggio preliminare.
Si può amare il proprio ruolo, la scena che si calca, i personaggi interpretati. Ma non c’è dubbio che si recita perché il pubblico è pagante.
Da un lato questo significa che si hanno responsabilità nei confronti del pubblico. Un coordinatore ha molto potere, formale o informale, e dunque molte responsabilità verso i colleghi, i committenti, gli utenti, la comunità…
Dall’altro lato questo significa che la spinta oggi molto forte a diventare più capaci di coordinare è radicata nelle trasformazioni in corso nel mercato del lavoro. In ogni professione crescono le richieste di aderire ai ruoli ricoperti o assegnati e di recitare a soggetto, creativamente, efficacemente. Ciò comporta l’adesione sempre più intima tra la maschera professionale e l’identità. Non bisogna dimenticarlo, si può tentare di non esserne prigionieri.
Pingback: Andrea Bortolotti, ospite della settimana 07/2013 « Mainograz