Il signor G. è ricoverato per un periodo in un’Unità riabilitativa ospedaliera. Nel caso specifico, la struttura di riabilitazione è adiacente a una R.S.A., cioè una residenza sanitaria assistenziale che ospita per un periodo definito persone non autosufficienti che non possono essere assistite in casa o che hanno bisogno di terapie specifiche.
Nella stanza a fianco alla sua è ricoverata una donna molto anziana in stadio avanzato di Alzheimer che trascorre la giornata intonando una nenia di quelle che sanno i bambini. Lo fa in continuazione, da mezzanotte alle sette del mattino. E’ il suo mantra personale. La signora è qui da quando si è rotta il femore, per una riabilitazione che probabilmente non avverrà e forse in attesa di trasferimento. Sospettiamo che i familiari abbiano colto l’incidente al balzo per collocarla in una struttura, e come dare loro torto. Ad averla accanto tutto il giorno c’è da perdere la pazienza. Qui i pazienti devono esserlo per forza, pazienti, perché non ci sono alternative quando alle otto di sera si spengono le luci e tutti a nanna.
La signora va in panico se si cerca di avvicinarla e reagisce mozzicando tutto quello che le capita a portata di dentiera. Così l’igiene quotidiana si traduce in una lotta per l’O.S.S. di turno, Operatrice o Operatore Socio Sanitario blu vestito.
Come in tutte le strutture sanitarie, anche qui gli operatori si distinguono dai colori. Più sono colorati, e meno poteri hanno in relazione alla cura dei pazienti. Quello con il camice tutto blu è l’addetto alle pulizie e non può nemmeno toccarli. Il blu con inserti bianchi è addetto all’assistenza diciamo così materiale del paziente: somministrazione dei pasti, cambio dei vestiti, igiene personale. Salendo nella gradazione cromatica c’è il camice bianco, l’infermiere che collabora con il bianchissimo e perciò può somministrare farmaci, a differenza del collega blu-bianco. Al vertice della purezza e del potere c’è il bianchissimo, cioè il medico. E’ lui, o lei, ad avere la prima e l’ultima parola sul paziente, a stabilire la terapia e il dosaggio dei farmaci.
Sicché Bianco-Blu, stufo di prendersi mozzichi dalla signora Alzheimer-scatenata, va da Bianco e gli chiede di somministrarle un poco di sedativo in più. Bianco riferisce a Bianchissimo, il quale deciderà in virtù del suo sapere non avendo peraltro a che fare direttamente né con la violenza dei morsi né con la tortura di una nenia incessante. In questo caso particolare Bianchissimo nega il sedativo, il perché non è dato sapere. Bianchissimo infatti non deve spiegazioni a nessuno. La signora per ora continua a reagire con violenza a Blu-Bianco e a torturare gli altri pazienti Pazienti, tra cui il nostro signor G.
Morale della favola: in ipotesi la struttura dovrebbe essere al servizio delle persone, in pratica più spesso le persone sono in funzione delle esigenze della struttura. Il signor G. come cittadino e come paziente dichiara di adattarsi volentieri ai bisogni della struttura se il servizio sanitario è di qualità, come nel suo caso. Insomma, le terapie funzionano ed è questo che conta.
Ma la domanda rimane, credo. Nel conflitto inevitabile tra la necessaria organizzazione di una struttura e i bisogni individuali, quali strumenti è possibile adottare per la sua gestione? Se conoscete esempi di buone pratiche in questo senso, vi prego di segnalarle.
C’è anche un altro tema, quello del rapporto tra medico e paziente, della relazione asimmetrica tra il paziente, portatore di un bisogno, e il medico, portatore di una risposta. Sappiamo che questo è anche un rapporto di potere.
Nella storia del signor G. il rapporto medico-paziente sia manifesta piuttosto come tessuto di più relazioni interlacciate in equilibri delicati. Ci chiediamo dove sia finita la cura, in tutto ciò. La cura nel suo senso originario di “interessamento sollecito e costante per qualcosa o qualcuno”, cura come “viva partecipazione alle vicende altrui” (sto citando il dizionario etimologico).
E ancora: sono due saperi diversi quello dell’infermiere/a, costruito sul campo e nella relazione, e quello del medico/a, costruito sulla misurazione e comparazione dei casi. Semplificando al massimo e non senza una certa forzatura, potremmo dire che l’uno è un sapere qualitativo e pratico, l’altro un sapere quantitativo e teorico. Due saperi diversi, necessari uno all’altro, che prima dell’avvento della medicina moderna erano racchiusi in un’unica figura, ma che oggi sono scissi e in relazione gerarchica. Un’evoluzione della medicina non può prescindere, credo, da un riequilibrio tra i due.
Ci chiediamo inoltre quale sia la forma organizzativa più vantaggiosa dal punto di vista economico e insieme più sostenibile dal punto di vista umano. Siamo certi che il modello ospedaliero sia quello più indicato?
Eleonora Cirant
10 giugno 2011
Sono un’ibrida.
Appena uscita dalla facoltà di filosofia mi sono iscritta a un corso per applicazioni internet.
Esploro il raccontare nelle sue molteplici forme ed espressioni.
Penso che tutto sia politica, fino al nostro più piccolo gesto, e cerco di agire di conseguenza.
Lavoro all’Unione Femminile Nazionale di Milano, dove mi occupo del centro documentazione. Come giornalista free lance collaboro con diverse testate.
Sono cofondatrice dell’associazione Blimunde sguardi di genere su salute e medicina di cui curo il sito e la rubrica mensile “Natura è cultura”.
Tengo un corso di yoga il martedì sera dalle 19 alle 20.30 presso lo SpazioLife di via Pomponazzi 4 a Milano.
Ho appena aperto un blog, I racconti del corpo, ancora tutto da riempire.
Grazie per il tuo commento e per le proposte di riflessione. Un tema da riprendere, in un modo o nell’altro. Lascio
decantare, e mi riprometto di tornarci, magari anche organizzando con più persone con un dibattito pubblico.
Se c’è una soglia oltre la quale è davvero la motivazione personale che conta, credo che tanto possa essere fatto per “formare” i medici e per organizzare le strutture in modo diverso. Sul tema degli anziani per esempio, una infermiera all’incontro sull’ opera della cura raccontava dell’esperienza svizzera.
A presto dunque, lavoriamoci insieme…
Eleonora
Paola Camber da Pordenone manda questa poesia.
La rilancio.
Figli dell’epoca
(Wislawa Szymborska)
Siamo figli dell’epoca,
l’epoca è politica.
Tutte le tue, nostre, vostre
faccende diurne, notturne
sono faccende politiche.
Che ti piaccia o no,
i tuoi geni hanno un passato politico,
la tua pelle una sfumatura politica,
i tuoi occhi un aspetto politico.
Ciò di cui parli ha una risonanza,
ciò di cui taci ha una valenza
in un modo o nell’altro politica.
Perfino per campi, per boschi
fai passi politici
su uno sfondo politico.
Anche le poesie apolitiche sono politiche,
e in alto brilla la luna,
cosa non più lunare.
Essere o non essere, questo è il problema.
Quale problema, rispondi sul tema.
Problema politico.
Non devi neppure essere una creatura umana
per acquistare un significato politico.
Basta che tu sia petrolio,
mangime arricchito o materiale riciclabile.
O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma
si è disputato per mesi:
se negoziare sulla vita e la morte
intorno a uno rotondo o quadrato.
Intanto la gente moriva,
gli animali crepavano,
le case bruciavano e i campi inselvatichivano
come nelle epoche remote
e meno politiche.
grazie Eleonora!
raccolgo una tua frase:
C’è anche un altro tema, quello del rapporto tra medico e paziente, della relazione asimmetrica tra il paziente, portatore di un bisogno, e il medico, portatore di una risposta. Sappiamo che questo è anche un rapporto di potere.
Tra bisogno e risposta ci può essere un’altra cosa, la domanda. Che è un bisogno ( o un desiderio) portato dentro una relazione, trasformato in discorso (quindi già soggetto ai vincoli della comunicabilità, del significato…). E’ ad una domanda che si da una risposta. Nel caso delle cure primarie, la domanda è spesso implicita, immaginata. O costruita sulla base di un modello (l’anziano, il disabile…), che sono contenuti generali di pensiero ed inesistenti nella realtà, in cui abbiamo a che fare con persone.
Dando risposte a soggetti generali, esercitiamo indubbiamente un potere -se non altri di omissione oppure, letteralmente, di scelta.
Ma, già che si parla di ospedali, lesta arriva l’obiezione: ma mica si possono fare servizi personalizzati! mica si può dare risposte ai bisogni specifici di ciascuno! Questo può accadere (se va bene) per il bambino, che ha la sua mamma che, faticosamente e gioiosamente (perchè il piacere che ci metti è fondamentale per la cura!!), traduce i suoi bisogni e da risposte a quei segnali, che legge come domande. Il pianto, la contrazione, lo sguardo spaurito. Se può, mette pure parole su queste letture. Accompagna i gesti con toni di voce e corporei. E’ una macchina di messaggi positivi, la mamma!
Come può esserlo anche l’operatore, dal bianco blu al bianchissimo al rosso pompeiano al grigio acciaio (!?)
soltanto tornando nella relazione ed ascoltando la domanda, aiutando a farla formare, mettendo in gioco le sue risorse ( i tempi, gli spazi, le possibili attività….), il suo corpo, le sue parole. SArà un negoziato, un avvicinamento ed un allontanamento, un progressivo definirsi di un rapporto tra domanda e risposta. E sarà magari trasformazione di pezzi d’organizzazione, o tentativo di trasformazione; oppure modifica dei comportamenti, adattamento alle condizioni date. Non so cosa sarà. Però so che funziona meglio se avviene nella relazione -non quella ideale, ma quella faticosa (e gioiosa?) e quotidiana e densa.
v