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Pensieri, esplorazioni, ipotesi. Un confine incerto tra personale e professionale.

Avvicendamenti e pre-giudizi

Genitori, figli e passaggi generazionali. Nell’incipit di Matilde, Roald Dahl (scrittore per ragazzi e non solo) presenta la geniale e sensibile protagonista contrapponendo due atteggiamenti: ci sono genitori che sopravvalutano i figli e genitori che se ne dimenticano (e Matilda è una bambina trascurata).
Messa così si viene proiettati in una dicotomia contrappositiva.
E questa non è la sola semplificazione irriverente che Dahl introduce. Già che è in tema di pensieri (e comportamenti) genitoriali, lancia un altro stereotipo, piuttosto irriguardoso, forse…

I padri e le madri sono tipi strani: anche se il figlio è il più orribile moccioso che si possa immaginare, sono convinti che si tratti di un bambino stupendo.
Niente di male: il mondo è fatto così. Ma quando dei genitori cominciano a spiegarci che il loro orrendo pargolo è un autentico genio, viene proprio da urlare: «presto, una bacinella! Ho una nausea tremenda!».
Pensate alle sofferenze degli insegnanti, costretti a sorbirsi le stupide vanterie di genitori orgogliosi; per fortuna possono vendicarsi al momento delle pagelle. Se fossi un insegnante, mi prenderei il gusto di qualche bella nota pungente. «Il vostro Massimiliano» scriverei, «è un totale disastro. Spero per voi che abbiate un’azienda di famiglia dove sistemarlo dopo gli studi, perché non riuscirebbe a trovare lavoro da nessuna altra parte».
(p.8)
Roald Dahl, Matilde, Salani, 2010 (ed. or. 1989).

Dalla lettura delle prime righe del libro (il neretto è mio) prendo alcuni spunti in tema di avvicendamenti generazionali. In verità le considerazioni sono stimolate anche da una recente esperienza professionale. Nell’ambito di un percorso formativo, due gruppi di giovani dirigenti di imprese sociali hanno incontrato imprenditori che hanno vissuto o stanno vivendo successioni ai vertici delle loro imprese (profit e cooperative), e hanno riflettuto sulle testimonianze portate.

La prima considerazione è che i giudizi, le prefigurazioni, i piani dei genitori (o dei leader al governo) contano nel determinare le possibilità di passaggio generazionale e gli esiti. Ovvio, si potrebbe dire. Sì, certo, ovvio, ma un ovvio sottaciuto o dimenticato. I progetti: desiderati, alimentati, detti e ridetti, privatamente e pubblicamente (o non detti), plasmano il futuro, lo condizionano (per la loro parte), lo costruiscono.
Il ‘film che si fanno’ padri e madri (ma del ruolo delle madri nei processi successori si dice pochissimo) finisce per essere il copione a cui la realtà deve (provare a) conformarsi. Non è quindi improprio, indagare le attese dei genitori o dei leader in relazione ai successori, le propensioni e le competenze che questi ultimi dovrebbero avere, i compiti che dovranno affrontare… per provare a comprendere i processi successori, anche considerando punti di vista – di genitori/fondatori/predecessori – che sappiamo essere presenti, ma che spesso ignoriamo.

La seconda considerazione riguarda lo sbocco tranchant che Dahl augura a figlioli/e sopravvalutati/e: la migliore opportunità sarebbe un’azienda di famiglia. La logica imporrebbe che non valga il converso. E cioè non si dovrebbe poter affermare che tutti coloro che lavorano in un’azienda di famiglia siano orribili mocciosi. E neppure che tutti i successori siano totali disastri, assolutamente non all’altezza dei loro padri (o madri).
Ma con questa – consapevole o inconsapevole – preoccupazione figli (e successori) si trovano a dover fare i conti. Sarò all’altezza di mio padre? Saremo in grado di portare avanti l’impresa e farla prosperare? Sapremo prendere l’eredità che i fondatori della cooperativa lasciano e non dilapidarla? Che presidente sarò? Che capacità imprenditoriali sappiamo e sapremo esprimere oggi che assumiamo collegialmente la responsabilità di governare e di intraprendere? Il fantasma dell’inadeguatezza va incontrato; il punto non può essere eluso: sto nell’azienda di famiglia perché non sarei in grado di venire accolto in nessun’altra azienda? O ci sto perché questa una scelta consapevole, la mia scelta? Ricopro ruoli di (co)responsabilità perché porto competenze e capacità? O sono al traino?

Una terza considerazione riguarda le attese sociali e relazionali.
Nelle ambivalenze che attraversano molte vicende umane, i genitori da un lato lavorano per costruire il futuro dei figli, dall’altro è possibile che si chiedano se questi figli saranno in grado di sviluppare autonomie, di ricevere l’eredità (l’azienda) di metterla a valore, di continuare e di innovare, di proseguire e di metterci la loro impronta… [conservare e cambiare, un bel dilemma!]
I figli si interrogano se davvero sono interessati a cimentarsi con quel disegno in buona parte tracciato (ma tutto da tradurre in pratica): è davvero qualcosa che mi interessa? O è un ripiego?
E intorno colgono ritorni ambivalenti: sei figlio d’arte? Forse sapevi fare poco e ti sei infilato! Sei l’erede designato: dovrai superare, e di gran lunga, chi ti ha dato questa dote! Sei il figlio del proprietario? In fondo per te è tutta una discesa, comoda e placida. Subentrate in un’impresa avviata? Il più è fatto, con un po’ di attenzione, non vi rimane che disporvi a raccogliere i frutti! Anche le rappresentazioni sociali sono elementi con cui fare i conti, aspetti che, in modo diverso, entrano in gioco.

Adesso che rileggo il post, mi viene da pensare che forse è meglio lasciar perdere i libri per bambini.
Si trovano cose scomode, con cui misurarsi.

One comment on “Avvicendamenti e pre-giudizi

  1. Pingback: Ho sognato Willy Wonka (imprenditore alle prese con il passaggio di consegne) « Mainograz

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