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Pensieri, esplorazioni, ipotesi. Un confine incerto tra personale e professionale.

La fatica di scrivere nasce da un incessante non so (Wisława Szymborska)

Attingo a piene mani.
Non dalle poesie, sarà facile e lo farò. Estrapolo dal discorso che Wisława Szymborska pronunciò a Stoccolma il 7 dicembre 1996, quando le venne conferito il premio Nobel per la letteratura.

Arrivava il momento in cui il poeta si chiudeva la porta alle spalle, si liberava di tutti quei mantelli, orpelli e altri accessori poetici, e rimaneva in silenzio, in attesa di se stesso, davanti a un foglio di carta ancora non scritto. Perché, a dire il vero, solo questo conta.
[…]
Il loro lavoro non è per nulla fotogenico. Una persona seduta al tavolino, o sdraiata sul divano fissa con lo sguardo immobile la parete o il soffitto, di tanto in tanto scrive sette versi, dopo un quarto d’ora ne cancella uno, e passa un’altra ora in cui non accade nulla… Quale spettatore riuscirebbe a regge un simile spettacolo?
Ho menzionato l’ispirazione. Alla domanda su cosa essa sia, ammesso che esista, i poeti contemporanei danno spesso risposte evasive. Non perché non abbiano mai sentito il beneficio di tale impulso interiore. Il motivo è un altro. Non è facile spiegare a qualcuno qualcosa che noi stessi non capiamo.
Anch’io talvolta, di fronte a questa domanda, eludo la sostanza della cosa. Ma rispondo così: l’ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti e degli artisti in genere. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono pedagoghi siffatti, ci sono giardinieri siffatti e ancora un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro può costituire un’incessante avventura, se solo sanno scorgere in esso sfide sempre nuove. Malgrado le difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi. L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so”.
[…]

p.15-16, Wisława Szymborska, “Il poeta e il mondo”, in Vista con granello di sabbia, poesie 1957-1993, Adelphi, Milano, 1998.

E allora?
Come ti permetti di sequenziare un premio nobel?
Che connessioni ci saranno mai tra una poeta e te che vivi di letteratura grigia? Che scrivi con e per conto di gruppi, servizi e organizzazioni che provano a concordare modi per collaborare, che cercano di rappresentare con le parole prodotti immateriali e risultati evanescenti, che attraverso la scrittura funzionano, si strutturano, si danno forma e consistenza?
Rispondo a queste prime obiezioni e poi passo alle argomentazioni che intendo brevemente sviluppare (cioè alla domanda “E allora?”).

Come ti permetti?
Sequenzio una poeta perché si è rivolta a me, ha parlato proprio con me, ha scritto pensando (anche) a me.
Perché quando leggo le sue poesie vorrei poterle prenderle la mano e pregarla di parlarmi ancora.
‘Letteratura grigia’ è una definizione in disuso. Indica una produzione scrittoria, per lo più operativa, di servizio, che tuttavia impegna moltissimi lavoratori: relazioni, sintesi, diari di consegna, infinite conversazioni via mail… report e documentazioni, linee guida e organigrammi, scritture contabili e commenti esplicativi, note, didascalie, appunti, verbali, restituzioni, lettere. Lettere di ogni tipo, genere, foggia, stile e tono. E oggi scrittura 2.0.
Non sono l’unico che per buona parte della sua giornata scrive. E non sempre mi paiono grigie le cose che scrivo (certo non si tratta di letteratura), ma i testi possono essere scritte bene, oppure no (spesso no. E quando è no, allora è fatica, imbarazzo, truccologia, sfinimento, incazzatura e ancora fatica).

Estraggo con libertà dai tesori di Wisława Szymborska perché le sue parole mi ristorano, mi allietano, mi acquietano nell’ansia di scrivere performativamente, perché mi emozionano e mi fortificano.

Fenomenologia della banale fatica di scrivere
Cosa afferro (dall’intera prolusione e) dalla citazione riportata?
Scrivere è:
Solitudine
Attesa.
Pazienza.
Ascolto di sé, d’intorno a sé.
Rimane in ombra il processo creativo interiore.
Apparente improduttività.
Tempo sprecato.
Rimanere in allerta, vigili, concentrati, senza demordere. Anche quando ci si alza, e si fa di tutto, fuorché scrivere.

Darsi tempo
Si perde tempo. E si rimane lì, lasciando scorrere da qualche parte dentro di sé i pensieri, lasciandoli venire avanti, fissandoli su fogli di fortuna, al volo su file aperti al volo, su post-it, sul retro delle fotocopie, sulle controcopertine, a margine, sul bordo… sulle tovagliette delle mense o dei bar, sugli scontrini, da qualche parte.
Si rimane con la testa lì, lavorando ad altro, dedicandosi ad altro, tenendo aperto però il file aperto, sul desktop, nella testa, nello scatto del polso. E si fa altro perché nella scrittura professionale si è per lo più sotto (o accessibili) agli sguardi degli altri. Si sfugge allora portandosi il lavoro a casa, facendolo la sera, o la mattina, o quando il silenzio invade.
L’ispirazione arriva in forma di pressione, sospinta dall’urgenza, incalzata dalla consegna, come una pesca miracolosa, come una visita in/attesa, come una spesa ben fatta al supermercato.
Ma il non so non recede. Al contrario tamburella impaziente. Ad ogni rilettura si fa più spavaldo, ad ogni revisione più pignolo. Il non so apre, incalza, tormenta. Bisogna essere risoluti e sapere che viene il momento di interrompere, di chiudere e di inviare.

Stare da soli
La descrizione del lavoro del poeta che Wisława Szymborska ci propone, introduce poi la questione della solitudine. Si scrive per lo più da soli, più raramente in coppia e ancor meno frequentemente in gruppo. Ma non basta essere soli per sperimentare la solitudine.
La solitudine ha molti lati. La distanza dagli altri: è necessario chiudere una qualche porta dietro e dentro di sé per poter dedicarsi al processo scrittorio. La distanza dalle molte cose che ci invadono, che premono per ricevere attenzione, per essere considerate. La solitudine che si proverà quando altri leggeranno quello che avremmo scritto. Non mi riferisco a componimenti poetici o letterari. C’è sempre una distanza che si avverte nel recepimento dei propri testi, anche quelli scritti per lavoro. La fatica di scrivere si annida in una solitudine che sembra escluderci e in una insufficiente ricerca di una solitudine operosa.

Quello che Wisława Szymborska non dice
La lettura dei poeti alimenta la determinazione e la fantasia, la passione e la curiosità, l’elenco degli infiniti non so.

One comment on “La fatica di scrivere nasce da un incessante non so (Wisława Szymborska)

  1. ovittorio
    12 October 2011

    e c’è quel momento dell’apparire della scrittura, del fissarsi e mettersi fuori dei pensieri, del loro mettersi in fila. Letteratura grigia…sono anche io un letterato grigio, assegnato alla scrittura funzionale, ma sempre costantemente in rivolta. Ed è qui che io metterei il brucicchiare dell’apparire dell’ispirazione, che si da nello sparire nell’effettualità dello scritto…lampeggia un secondo prima di sparire e riconsegnarci al vuoto (può essere un secondo…quando non ti piace la virgola messa lì….quando cancelli e ricancelli….quando ti fermi dopo un periodo scritto di getto….). Ma deve esserci anche la rivolta, la tensione a non asservire tutta l’ispirazione alla strumentalità della parola ( o al rendere la parola soltanto un strumento).
    Come se allo scrivere grigio non restasse che il compito di collegare i pensieri alla realtà (un budget? un progetto? una sintesi di un incontro? un riassunto di un testo?…), come se il vero fosse sempre altrove e le parole non fossero che efficaci traduttori e generalizzatori.
    Invece no. Lo scrivere grigio può contribuire a produrre la realtà di cui parla – o forse la crea addirittura?! e solo con la potenza delle parole? ma davvero??

    v

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