Da qualche tempo sto sperimentando la pubblicazione di post a puntate e questo è il primo di una serie dedicata al prendere appunti per lavoro. Come si snoderà la serie? In modo relativamente semplice. Dopo questo primo post introduttivo, seguirò le vicende narrate ne Il ritorno del maestro di danza (qui e qui due punti di vista sulla) crime story di Henning Mankell. Utilizzerò l’indagine poliziesca, che ha un suo inizio e una sua fine (e per la verità anche un inizio remoto che precede l’inizio degli accadimenti veri e proprio), come se fosse un resoconto di una ricerca sul campo, il report di una campagna di immersione etnografica in una organizzazione in parte stabile (le forze di polizia della contea di Jämtland regione della Svezia centro settentrionale in cui si svolgono le vicende) e in parte temporanea (infatti come ogni indagine, si apre un cantiere che ha una meta, delle metodologie, dei professionisti, delle competenze, e soprattutto degli imprevisti). Riporterò i brani in cui i personaggi che compaiono nella vicenda – per lo più il protagonista Stefan Lindman – si servono degli appunti. Il mio obiettivo è provare a comprendere come sono usate le annotazioni di lavoro in situazioni le più diverse, e come gli appunti producano effetti organizzativi, contribuendo ad alimentare lo svolgersi della vicenda.
Per provare a ricapitolare i diversi spunti presentati, il ciclo di contributi si chiuderà con un post che collega alcune riflessioni di Giorgio Raimondo Cardona, etnolinguista che dagli anni ’50 fino agli anni ’90 si era occupato di antropologia della scrittura, con alcuni spunti attinti da Roal Dahl, noto scrittore per ragazzi (e non solo).
Prendere appunti per lavoro non è semplice. Anche se in genere è piuttosto diffuso e utile. Se ci penso, infatti, non riesco a immaginare un lavoro che non richieda, magari saltuariamente o in modi apparentemente stravaganti, che non si debbano prendere appunti. Il gommista prende appunti sulle gomme che ha in consegna prima di riporle per la stagione del cambio. Il muratore prende appunti sui muri, segna le quote, le misure, gli interventi, le varianti, a volte con uno schizzo concorda il lavoro da fare con il capomastro; appunti e schizzi effimeri, che scompariranno con l’intonaco. Il falegname scrive direttamente sul legno, legno che viene perfino firmato dai clienti a riprova dell’accordo preso. Anche i cuochi prendono appunti sul ricettario che utilizzano come linea guida, come attesta Atul Gawande (2011).
Se è così gli appunti sarebbero una scrittura professionale diffusa… che mi sembra trascurata, o peggio negletta. Ho l’impressione che gli appunti siano una forma di scrittura particolare e influente. E se l’impressione soggettiva è di prendere appunti che mi sono utili, il punto è individuare qual è il trucco per prenderli in modo efficace. Ma la competenza pratica non è ancora conoscenza formalizzata, trasferibile e discutibile, e anche per questo ho pensato di ricavare indicazioni da una vicenda plausibile.
Perché in alcune occasioni essenziali non si prendono appunti? Non lo so esattamente, ma spesso me lo chiedo. Mi capita abbastanza spesso di facilitare incontri di lavoro o di fare formazione… Qualcuno prende appunti, freneticamente; altri con maggiore agio. Qualcuno porta con sé fogli, quaderni e penne, alcuni di questi rigirano la penna tra le mani, la mettono in bocca, stropicciano i fogli o scarabocchiano i quaderni… Qualcuno nel mezzo della discussione cerca un foglio, chiede una penna. Si erano presentati all’incontro senza strumento scrittorio alcuno.
Nelle plenarie è frequentissimo: le persone ascoltano, ma non sono attrezzate per prendere appunti. In università mi capita di vedere uno stranissimo fenomeno: molti studenti prendono appunti solo se si proiettano lucidi. Se i docenti parlano, fanno commenti, se parlano altri studenti, se partecipano a un colloquio, una buona parte degli studenti non si appunta nulla. Poi ci sono le persone che prendono appunti sui computer, sui tablet e qualche volta sui cellulari: qualcuno crede che facciano altro, messaggino, o chattino. E invece no, prendono appunti.
A colpirmi sono le attivazioni nel prendere appunti, quando si scrive e quando no. E mi chiedo perché si prendono o non si prendono gli appunti. E non lo fanno solo gli altri. Capita anche a me. A volte per stanchezza: prendere appunti è un’attività onerosa, impegnativa, che richiede attenzione. A volte perché non si associa rilevanza al momento né influssi potenziali successivi.
Prendere appunti è un’attività usuale e operativa, a prima vista banale. Eppure potrebbero non mancare le domande (Cardona, 2006):
Per tracciare un quadro di corrispondenze proviamo a seguire la pratica del prendere appunti in una vicenda professionale conchiusa, la narrazione di un’indagine sull’efferato omicidio di un poliziotto in pensione.
Uso Il ritorno del maestro di danza, un romanzo giallo di Henning Mankell come resoconto di una pratica lavorativa. Tengo a riferimento Bruni e Gherardi (2007) e Vermersch (2005). Rimane una domanda: si può fare ricerca a partire dai romanzi? Hanno qualcosa da dirci sulla/e realtà? Se – come qualcuno sostiene – i romanzi ci dicono la verità sulle grandi vicende umane, perché la loro finzione non può dirci qualcosa di utile sulla microfisica delle pratiche di lavoro?
Bruni A., Gherardi S., Studiare le pratiche lavorative, Il Mulino, 2007.
Cardona G. R., Introduzione all’etnolinguistica, Utet, 2006 (1976).
Gawande A., Check list. Come fare andare meglio le cose, Einaudi, 2011.
Vermersch P., Descrivere il lavoro. Nuovi strumenti per la formazione e la ricerca: l’intervista di esplicitazione, Carocci, 2005.
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Prendere appunti non fa perdere qualcosa? Cioè siamo sicuri che non ci siamo persi niente nel voler annotare obbligatoriamente in quel momento, quando potevamo farlo dopo? Poi, è così necessario appuntare? Io fondamentalmente non riesco a prendere appunti, perché memorizzo le scene (Sì lo so, detto così fa molto mentalista).Mi spiego meglio, riesco a rielaborare cose, concetti, momenti, pagine addirittura, se sono concentrato su cosa ascoltare e vedere; se scrivo, mi perdo invece. Probabilmente è un mio limite, ma memorizzo di più così. Di corsi che ho seguito, ne ricordo ancora molti dove non ho “tentato” di prendere appunti, il contrario no. Ma la tematica mi piace molto, a volte mi sento limitato a non saper prendere appunti e concentrarmi sull’ascoltatore al 100%.
Quando lavoro (in particolare quando partecipo o facilito incontri di gruppo) mi rendo conto di come sto (stanco o in forma) e di come entro in contatto con quello che sta succedendo, proprio da come prendo appunti.
Non sempre riesco a prendere appunti al computer (e non sempre è opportuno), spesso le situazioni sono così incasinate, che gli appunti prima ancora che fissare contenuti riflettono la situazione che va sviluppandosi o che viene raccontata.
Senza appunti sarei in fortissima difficoltà. Prima degli incontri riguardo gli appunti e ne prendo altri che chiamo “di preparazione”.
E quando sono particolarmente efficace penso: “ah, se avessi preso gli appunti così quando andavo in università! … mi sarei risparmiato inutili spremiture di testi, e avrei avuto un fantastico navigatore per non perdermi;-)”.
RIcco di spunti il tuo primo post sul prendere appunti… chissà cosa ci riservi nei prossimi!?
Anche io per lavoro e per pratica mi interrogo spesso sul prendere appunti: osservo attivazioni e comportamenti altrui, ma anche mi interrogo sulla montagna di carta che mediamente produco in situazioni di studio o di consulenza.
Credo che effettivamente nei luoghi di lavoro si prendano pochi appunti e che ci siano comportamenti che si collocano prevalentemente agli estremi del “prendo/non prendo appunti”.
Mi colpiscono in particolare alcune figure:
– “lo scolaro”: faccio viaggiare la penna sul foglio così tu (fomatore/consulente/capo) pensi che io stia seguendo quello che dici, in realtà sto facendo disegnini..
– “lo scolaro vendicativo”: prendo appunti approssimativi e faccio viaggiare la penna sul foglio, “mi spezzo ma non mi piego” e alla fine della riunione lascio il foglio in bella vista sul tavolo in modo che tu e gli altri partecipanti all’incontro, sappiate che …
– “il consumista”: a cosa serve prendere appunti? tanto me lo ricordo…
– “l’investitore”: prendo appunti perchè mi interessa, voglio trattenere ciò che sta succedendo per poi riguardarlo, ripensarlo, poterlo fare mio e magari usare ciò che ho scritto come trampolino per altri pensieri… interagisco e traduco (per me e per gli altri)!
– “lo scalpellino”: prendo appunti perchè mi aiutano a tenere l’attenzione, a fissare dei passaggi che nel tragitto dagli organi di senso (vista/udito) all’output della scrittura, lasciano tracce nella mia mente e nel mio corpo
“Si può fare ricerca dai romanzi?” Personalmente credo proprio di si e sono curiosa di leggere la prossima puntata del post… sicuramente aiutano a guardare con l’aiuto della distanza e del transfer avvenimenti e questioni che ci vedono coinvolti nel quotidiano.
Rossella
Ragazzi che commento.
Rossella, perchè non mi mandi una breve presentazione e una foto.
Così ti pubblico come ospite della settimana.
Sto lavorando al secondo post sul prendere appunti (e sul penultimo e sull’ultimo).
Insomma parto dall’inzio e dal fondo puntando al centro.
Mah, che modo di lavorare sarà?
Un saluto,
Graziano:-)
…e poi, come si dice quando qualcuno dice qualcosa che riconosciamo come vera o comunque condivisibile? APPUNTO!
o quando vogliamo rilanciare e continuare il discorso di un altro? APPUNTO!
nell’agosto in cui sono, e nella pratica appuntistica che mi accompagna nel vivere, l’appunto mi suona più vicino ad una pratica di raccolta….come se la scrittura (provvisoria, labile, personale, quasi incomprensibile, scarabocchiosa, precaria, imprevista….) permettesse di mettere un punto, di organizzare il fluire delle parole e dei concetti e dei messaggi (compresi ovviamente quelli non verbali, influentissimi nei diversi contesti…)…creando così un altro discorso, proprio, da rimettere poi in circolo nelle occasioni successive ….oppure no, lasciando decadere la traccia, il cui compito però è già stato svolto, perchè l’appunto non ho primariamente un compito vicario rispetto alla memoria, ma proprio rispetto alla comprensione dei nostri scambi linguistici e comunicativi.
adesso però mare, dai!
v
A Milano non c’è il mare…
Ci si orienta col sole.
A volte, in lontananza si vede il Resegone.
Da lì venne – a suo tempo – Renzo.
A Milano la metropolitana ti porta:
– in posti felici (fermata Gioia, MM2),
– esotici (fermate Lima e Uruguay, MM1),
– lontani nel tempo (fermata Villa Pompea, MM2)
– confusi, da non confondersi (fermata
Porto di mare, MM3).
Vedi te cosa vuoi (puoi) fare…
;-)
il mare è un bordo.
la metro ti prende a bordo.
restiamo fermi sulle parole ed evitiamo di sigillare il loro significato.
e scendiamo però al momento giusto: quello con il nome più bello!
v
infatti: appunti di lavoro!
Buffo non è vero? anche questa volta leggo un comportamento collettivo in un contesto che è quello universitario. Una specie di tic- nevrotico alle volte ripetuto o imitato, non si sa bene chi comincia, si crea così una sorta di magia….attenzione al relatore o distrazione per abitudine?
Sarà vero che l’attenzione oramai è mediologica, quando ero studente frequentavo poco le lezioni universitarie, il minimo sindacale, perchè mi ritrovavo nelle biblioteche, dove trascorrevo gran parte delle mie giornate e serate(che begli incontri notturni che facevo).
Oggi non resisterei nemmeno un’ora ad ascoltare un oratore, pensando di doverci fare ancora un esame.
A proposito, non ti è mai capitato mai svegliarti di notte, dopo 10, 20, 30 anni che ti sei laureato e pensare di dovere fare ancora un esame?
Che incubo, sono contento di avere finito l’università.
Buona notte.
Pietro Panebianco