09:30, giovedì 07 marzo 2013: è iniziato il corso di Psicosociologia dei gruppi e delle organizzazioni.
Programma della prima mattinata:
– Partire analizzando il titolo del corso: “Psicosociologia dei gruppi e delle organizzazioni”.
– Presentazioni reciproche – per quello che è possibile fra un centinaio di persone.
– Presentazione del percorso e delle modalità di lavoro.
– Poi si potrebbero prendere gli accordi di lavoro necessari per attivare il format corso.
– Procederei identificando le organizzazioni e costituendo i gruppi di lavoro per attivare le ricerche esplorative sul campo.
Ecco per punti la scaletta del primo incontro che in linguaggio locale si chiama lezione (e d’ora in poi utilizzerò la prospettiva emica, segnalando quando me ne allontano).
Già, ma come rompere il ghiaccio? [Gli inizi, tutti gli inizi, quelli formativi in particolare mi mettono ansia. Non sono mai facili. Ma non si possono evitare].
Provo così: ho trovato un brano estrapolabile nel libro di Antonio Pascale e Luca Rastello, Democrazia: cosa può fare uno scrittore, Codice edizioni, 2011. Leggo (quasi interamente) il paragrafo finale “Post scriptum: per finire, un’autocritica” del contributo di Antonio Pascale, contributo dal titolo Opinioni (democratiche)?.
Mi piace l’idea che un brano di commiato possa fungere da apertura. Eccolo:
«[…]
Ecco un esempio: dal 25 aprile fino al primo maggio 2008 sono stato ospite del presidio sanitario di Medici Senza Frontiere, a Rio de Janeiro. Il punto di primo soccorso era situato nel mezzo del complesso d Alemao, la più grande favela di Rio., in mano (ossia di proprietà dei) narcotrafficanti. È una zona blindata. Il mio compito era quello di descrivere le condizioni di vita dei cittadini della favela. Ho elaborato quindi un ragionamento: la favela è solo un fortino, all’interno del quale si commercia in droga. Siccome sono in tanti fuori dalla favela a usare droga, se il fortino è sporco, violento, malsano e brutto è solo affinché la merce arrivi pulita sulle tavole dei consumatori.
A un certo punto nella narrazione ho usato, per meglio sottolineare il clima cupo della favela, la seguente immagine: un palo della luce con un cavo singolo, sul quale si attaccavano decine e decine di fili illegali. La visione d’insieme vista dal basso mostrava un reticolato nero, quasi una ragnatela, per cui concludevo: “Ogni gesto d’astrazione creativa come quello tipico di guardare il cielo era sporcato da questa ragnatela. Qualcosa di sporco segnerà per sempre il processo creativo”.
Durante le letture e le presentazioni ho notato che questa immagine poetica risultava molto gradita al pubblico. Naturalmente me ne sono vantato. E naturalmente quella immagine forte e poetica in qualche modo ha immobilizzato il racconto e la favela la favela è precipitata, anche se poeticamente, nell’immaginario tipico: povertà, disperazione, narcotraffico e impossibilità di trovare una via di fuga, in quanto anche il cielo, elemento di libertà creativa, è sporcato.
Finché un giorno ho assistito a una conferenza in cui si parlava dei problemi del Terzo mondo. Il relatore, un antropologo americano, ha mostrato in una slide la stessa immagine che io avevo descritto: un cavo elettrico sul quale si attaccano decine e decine di cavi. Con mia sorpresa, il relatore non ha insistito troppo su questa immagine ma ha, invece, descritto il percorso dei fili. Dove andava a finire? L’immagine successiva si apriva sulla cucina di una casa; seduta al tavolo una bambina, che lavorava tutto il giorno e studiava fino a notte fonda grazie a quella luce. Il problema era allora come sfruttare quella luce abusiva trasformare un atto illegale in una possibilità legale.
Mi ha molto colpito questa descrizione: io non ci avevo pensato. Era un cavo abusivo, è vero, ma forniva elettricità anche a individui che stavano lottando per non rassegnarsi alle statistiche, le stesse che magari li vedevano come futuri soldati al soldo dei narcotrafficanti. Nella descrizione fredda dell’antropologo la mia immagine, ovvero il processo creativo sporcato dalla ragnatela dei fili, non reggeva alla prova dei fatti. Era statica, non dinamica.
Quanto tempo avevo impiegato a elaborare quella metafora? Forse due minuti e un po’ meno per scriverla. Risultato: un’immagine che paralizzava la narrazione in nome della sua forza poetica, un po’ come Protagora produceva con le sue belle parole le allucinazioni sonore in Socrate. L’antropologo invece non si è fermato lì a far poesia, ha seguito i fili casa per casa e ne ha illustrato l’effetto sulle singole persone. La sua descrizione ha aperto percorsi e possibilità che la mia bella e comoda e facile pigrizia poetica aveva eliminato.
Il mondo è vario e poetico di per sé; troppa poesia, e usata male, spegne la biodiversità, mentre al contrario la curiosità e l’inquietudine l’accendono. L’integrazione tra i saperi è l’unica soluzione per esaminare metodicamente quello che accade; l’intellettuale è tale se partecipa a questo processo. Ma quando si vanta, e si sforza di produrre immagini risolutive, fallisce e dà corpo e sostanza a belle allucinazioni, sonore o visive che siano.»pp. 38-40
Antonio Pascale, “Opinioni (democratiche)?” in Pascale A., Rastello L., Democrazia: cosa può fare uno scrittore, Codice edizioni, 2011, pp. 3-40.
Questo è il brano per aprire il corso. A seguire spazio a commenti e impressioni [non so come farò a gestire l’interazione tra tante persone, e chissà se vorranno dare un contributo o se preferiranno rimanere in silenzio… Vedremo]. Ci stanno poi alcune – poche sollecitazioni. E per concludere potrei chiedere (se si vuole) di mandare un tweet all’hashtag #psunimib13 (meglio tenersi leggeri).
Qualche spunto per commentare il brano. Qualche impressione.
Si vede all’opera la forza delle metafore nel costruire rappresentazioni che si cristallizzano in stereotipi autocompiaciuti e paralizzanti, con effetti persuasivi (autopersuasivi) e di compattamento – passo dopo passo, conferenza, dopo conferenza – della realtà. Può non bastare andare sul campo. Sembra altrettanto necessario collegare le proprie aspettative e gli apparati conoscitivi di cui ci si serve con le realtà che si avvicinano e con il proprio modi di esplorarle. Stare contemporaneamente rilassati per cogliere quello che ci viene incontro e in allerta per scansionare l’azione del costruire conoscenze (e ciò è possibile, forse è più agevole, non operando da soli, ma confrontandosi: il giornalista di inchiesta che ascolta l’antropologo).
Produrre e socializzare conoscenze comporta assumersi qualche grado di responsabilità. Nel brano mi sembra di rintracciare tre sfere di responsabilità:
Ricerca: il lato oscuro delle cose. Potrebbe non bastare andare sul campo. Antonio Pascale ci mostra come l’approccio al campo (la sua visita alla favela brasiliana) possa produrre letture conformiste, già definite prima di lasciare la scrivania, profezie che si autoavverano, ricerche confermative, errori cognitivi annunciati (cfr. scheda di p. 156 nel manuale di Psicologia sociale di David G. Myers). La ricerca sul campo richiede un lavoro di preparazione, di cura, di valutazione: raccogliere interviste o sottoporre questionari potrebbe non essere sufficiente per produrre nuovi elementi da considerare.
Consapevolezza (mindfulness) e teoria. Le teorie sono strumenti importanti, ma possono essere usati come ganasce per bloccare le ruote. Le teorie stesse possono – slide, dopo slide – venire roccificate, con un processo che si muove nella direzione opposta alla ricerca e al dibattito scientifico, ricerca e dibattito che si vorrebbero pazienti e critici verso quello che si presume di sapere. La consapevolezza si collega poi al riconoscere la varietà e la variabilità dei fenomeni sociali (che è poi la considerazione conclusiva di Pascale).
Un altro passaggio che mi sembra valga la pena sottolineare riguarda il confronto fra esperienze diverse, fra approcci di ricerca eterogei, strumentazioni e dotazioni disciplinari differenti. Pascale va ad ascoltare l’intervento di un antropologo. Mi fa sempre pensare quando le persone che vengono identificate come riferimenti, si mettono in posizione di ascolto, disponibili a riconsiderare le sicurezze che hanno costruito.
Quello che apparentemente nel brano non c’è: la tensione all’intervento. In effetti Pascale insiste sulla figura dell’intellettuale come figura ancora presente nella società, forse meno celebrata (il termine non è di moda e non sono interessato a riesumarlo). Nel collegare i processi di costruzione e trasmissione delle conoscenze alle attività di ricerca sono visibili le preoccupazioni per la democrazia. Preoccupazioni che avevano determinato le origini di approcci di ricerca che si richiamano alla prospettiva psicosociologica. Ciò che non è presente nel brano, mentre è una componente essenziale degli orientamenti che si rifanno alla psicosociologia, è proprio la dimensione dell’intervenire. L’approccio psicosociologico manifesta interessi profondi per la ricerca sul campo e per la ricerca impiegata non solo per conoscere ma per promuovere cambiamenti nella società, nei sistemi organizzativi, nei gruppi, tra le persone.
Intellettual*, filosof*, antropolog*, poet*, psicolog*, sociolog*, storic*, economista, pedagogista, psicosociolog*… Davvero contano le etichette? O contano le metodologie, le metateorie, i processi conoscitivi e i risultati che si producono? E la capacità di mettere a disposizione domande, problemi, e quadri interpretativi? Tendo a immaginare, come proverò a dire nel post che rilancio domani, che ‘psicosociologia’ sia termine per indicare un approccio che cerca l’integrazione delle discipline, e non lavora per edificare recinti in cui chiudersi, desiderando perdutamente di farsi assediare.
La foto che riporto mi convince solo in parte. La riproduco lo stesso per valorizzare ciò che trovo interessante e segnalare cosa invece no. Mi ritrovo nell’idea dello scambio, del prestito reciproco fra aree disciplinari, accetto anche che – poiché il manuale da cui è tratta la foto è un manuale di psicologia sociale – l’area tematica in oggetto stia al centro [ci sta]. Non mi ritrovo nella compattezza delle aree. Inoltre l’andamento unidirezionato delle frecce non mi sembra restituisca la complessità delle relazioni. Le aree disciplinari indicate, poi, mi sembrano ridotte al minimo [si poteva osare di più]. E, ancora, non mi ritrovo nella spiegazione metaforica fornita nel primo capoverso della didascalia.
Vi chiederete: cosa c’entra la psicosociologia?
Già, cosa c’entra?
Barus-Michel J., Enriquez E., Lévy A. (a cura di), Dizionario di psicosociologia, Cortina, Milano, 2005, (2002).
Hogg M.A., Vaughan G.M., Psicologia sociale. Teorie e applicazioni, Person, 2012 (2010).
Myers D.G., Psicologia sociale, McGraw-Hill, 2009 (2008).
Pascale A, Rastello L., Democrazia: cosa può fare uno scrittore, Codice edizioni, 2011.
È bello poter accedere in maniera così immediata ai contenuti quando a causa dell’influenza non é stato possibile andare a lezione!
Welcome Giorgia!
;-)
Personalmente ho la sensazione sempre più forte che certi sistemi di classificazione e categorizzazione servano maggiormente agli accademici, piuttosto che rispecchiare una qualche verosimilità.
Forse si potrebbe distinguere tra categorizzazioni arroccanti (difensive) e ordinamenti (generativi). Questi secondi utili a presentare gli elementi in gioco, le specificità, le differenze, le caratteristiche, così da consentire ragionamenti nel merito delle posizioni.
Ci penso…
Senta Chiara,
nelle prossime settimane lavoreremo su soggetto, gruppo, organizzazione, contesto.
Se ha modo di sfogliare le voci sul Dizionario, e le viene in mente qualche segnalazione di film, di clip, di musica, di libri o di citazioni dalla letteratura… welcome!
A proposito di favelas…consiglio il film “Tropa de Elite”…lo sporco viene da dentro o da fuori??