Pubblico al volo i materiali presentati e commentati oggi a lezione.
A tema il tentativo di cogliere elementi caratterizzanti le organizzazioni.
[Mi spiace per le fotocopie.
Ne avevo preparate una novantina, ma qualcosa mi dice che la realtà supera le aspettative;-]
Attingo da una cosa scritta da me. Non si dovrebbe fare. Ma, in attesa di segnalazioni più interessanti, cucino e servo quel che ho a disposizione. Pronto a cancellare il brano a favore di una citazione più riuscita ed efficace.
Lavoro con una grande organizzazione che ha la sua sede principale a Milano. Negli uffici prevale la penombra. La più parte delle porte di norma sono chiuse. Le pareti sono grigio nebbia, le porte grigio assorbente. Lungo i corridoi non si colgono conversazioni, non si incontrano gruppetti di persone, non si intravedono riunioni in corso. Prevale un’operosità silenziosa. Non so dire quante persone lavorino in quello o in quell’altro ufficio. Se qualcuno bussa è misurato, la risposta – se c’è – è discreta. Se qualcuno entra lo fa con garbo, scostando appena la porta. Se qualcuno esce, richiude la porta con cura dietro di sé. Tra le persone prevale una certa ritrosia. Adesso lungo i corridoi, le porte sono immobili. Nel silenzio sento di dovermi fare circospetto. Cosa sta avvenendo, a cosa si lavora, come stanno in contatto le persone?
Graziano Maino su Mainograz il 20 febbraio 2013.
Non è agevole comprendere cosa producono le organizzazioni e capire il loro funzionamento. Non è facile comprendere come producano conoscenze utili alle attività che svolgono e come queste conoscenze condizionino la loro cultura. Non è semplice cogliere come consentano alle persone di conoscersi fra loro, di sviluppare fiducia reciproca, di fare affidamento gli uni sugli altri e di riconoscere le autorità. E non è neppure agevole cogliere come promuovano lo sviluppo di forme di collaborazione interne e di cooperazione con altri soggetti presenti nel loro ambiente.
Quando si entra nelle organizzazioni accade di venire ammessi in modo parziale, solo a momenti particolari, in ambienti particolari, per tempi definiti, in attività circoscritte. Questa situazione è descritta da Richard Sennett in Insieme. Rituali, piaceri e politiche della collaborazione (2012), quando nel capitolo “L’azione corrosiva del tempo” (pp. 175-182) nota come la fugacità dei contatti impedisce lo sviluppo di rapporti e impedisce che si creino relazioni investite di significato sociale (o forza le relazioni verso rapidissime decadenze). La cultura organizzativa fatica a crearsi, a trasmettersi e a ricrearsi. Le organizzazioni si fanno impermeabili (non facilmente conoscibili), porose (anche grazie ai social network) e disorientanti (organizzazioni determinate ad avere rapporti determinati). Sono sistemi che producono servizi o beni, ma faticano ad essere luoghi di socialità, o meglio lo so per pochi mentre per altri sono realtà respingenti. Sennett sottolinea come il mutamento verso una flessibilità insistente e una temporalità brevissima avvenuto nelle organizzazioni ha alterato tre pilastri che reggevano le dimensioni sociali: il rispetto dell’autorità frutto di conoscenza reciproca e di negoziazioni progressive, il rispetto fra le persone ferme restando le differenti collocazioni, la capacità di sviluppare relazioni collaborative in situazioni critiche (Sennett, 2012, p. 167).
Poiché uno dei gruppi di ricerca sta lavorando con un’organizzazione religiosa, ho pensato di inserire un brano che mi sembra offrire qualche spunto. Attingo da Il nome della rosa di Umberto Eco la descrizione dell’Abbazia.
Della disposizione dell’abbazia avrò occasione di dire più volte, e più minutamente. Dopo il portale (che era l’unico varco nelle mura di cinta) si apriva un viale alberato che conduceva alla chiesa abbaziale. A sinistra del viale si stendeva una vasta zona di orti e, come poi seppi, il giardino botanico, intorno ai due edifici dei balnea e dell’ospedale ed erboristeria, che costeggiavano la curva delle mura. Sul fondo, a sinistra della chiesa, si ergeva l’Edificio, separato dalla chiesa da una spianata coperta di tombe. Il portale nord della chiesa guardava il torrione sud dell’Edificio, che offriva frontalmente agli occhi del visitatore il torrione occidentale, quindi a sinistra si legava alle mura e sprofondava turrito verso l’abisso, su cui si protendeva il torrione settentrionale, che si vedeva di sghimbescio. A destra della chiesa si stendevano alcune costruzioni che le stavano a ridosso, e intorno al chiostro: certo il dormitorio, la casa dell’Abate e la casa dei pellegrini a cui eravamo diretti e che raggiungemmo traversando un bel giardino. Sul lato destro, al di là di una vasta spianata, lungo le mura meridionali e continuando a oriente dietro la chiesa, una serie di quartieri colonici, stalle, mulini, frantoi, granai e cantine, e quella che mi parve essere la casa dei novizi. La regolarità del terreno, appena ondulato, aveva permesso agli antichi costruttori di quel luogo sacro di rispettare i dettami dell’orientamento, meglio di quanto avrebbero potuto pretendere Onorio Augustoduniense o Guglielmo Durando. Dalla posizione del sole in quell’ora del giorno, mi avvidi che il portale si apriva perfettamente a occidente, così che il coro e l’altare fossero rivolti a oriente; e il sole di buon mattino poteva sorgere risvegliando direttamente i monaci nel dormitorio e gli animali nelle stalle. Non vidi abbazia più bella e mirabilmente orientata, anche se in seguito conobbi San Gallo, e Cluny, e Fontenay, e altre ancora, forse più grandi ma meno proporzionate. Diversamente dalle altre, questa si segnalava però per la mole incommensurabile dell’Edificio. Non avevo l’esperienza di un maestro muratore, ma mi avvidi subito che esso era molto più antico delle costruzioni che lo attorniavano, nato forse per altri scopi, e che l’insieme abbaziale gli si era disposto intorno in tempi posteriori, ma in modo che l’orientamento della grande costruzione si adeguasse a quello della chiesa, o questa a quello. Perché l’architettura è tra tutte le arti quella che più arditamente cerca di riprodurre nel suo ritmo l’ordine dell’universo, che gli antichi chiamavano kosmos, e cioè ornato, in quanto è come un grande animale su cui rifulge la perfezione e la proporzione di tutte le sue membra. E sia lodato il Creatore Nostro che, come dice Agostino, ha stabilito tutte le cose in numero, peso e misura.
pp. 33-34
Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, 1980.
Alcune considerazioni:
Un organizzazione che è un luogo nel quale viveva un gruppo distinto di persone e allo stesso tempo il centro propulsore un sistema di produzione sociale ed economico (si pensi al ruolo delle abbazie nel alto medioevo). Le dimensioni valoriali e quelle funzionali erano (sono) intimamente connesse, in forme non immediatamente intelligibili (se non vogliamo cedere a stereotipi, che tendono a presentarsi ogni qualvolta ragioniamo di sistemi complessi e distanti. Dal brano si coglie anche la rilevanza delle stratificazioni storiche: le organizzazioni non sono solo presente, sono passato e sono futuro. Ed anche le dimensioni topologiche, spaziali e architettoniche assumono significati esplorabili. Incontriamo l’ordine (o rapporti tra le parti sono segnati da significati e la divisione funzionale viene riflessa dalle disposizioni e dalle caratteristiche degli edifici: siamo in presenza di un gigantesco e autosufficiente stabilimento, un insediamento di un più vasto sistema, dove non solo gli spazi, ma anche i tempi rispettano rigorose e corrispondenti sequenze.
La descrizione dell’abbazia lascia intravedere l’idea dei rapporti gerarchici, delle forze che muovono e collegano le parti. L’articolazione dei luoghi rimanda alla divisione del lavoro e delle risorse (certo questa struttura non è paragonabile con la fabbrica fordista), ma se ne coglie la capacità produttiva e comunitaria fra loro fuse. Si sente la stabilità (e anche la staticità), ma si avverte nel medesimo tempo il movimento, l’azione che produce ordine, economia, potere, cambiamento. E possiamo immaginare le persone e i gruppi che in questa organizzazione convivono, entrano in relazione, confliggono, in una unità sociale che persegue “obiettivi di produzione di beni o servizio per perseguire finalità di tipo culturale (religioso, educativo…)” come suggrisce Lévy (2005, p. 209). E per utilizzare fino in fondo la sintesi che propone Lévy (2005, p. 210), pur consapevoli che in un’abbazia la dimensione comunitaria è fondante, si possono lo stesso cogliere i quattro criteri che identificano l’organizzazione in quanto un’unità sociologica (forse il quarto criterio lo cogliamo ex-post):
- la finalità che corrisponde a una funzione nella società;
- le regole che definiscono comportamenti e relazioni;
- i criteri che definiscono la divisione del lavoro;
- una storia che implica un inizio e una fine.
p. 210
Lévy A. “Organizzazione”, in Barus-Michel J., Enriquez E., Lévy A. (a cura di), Dizionario di psicosociologia, Cortina, 2005 (2002), pp. 208-216.
Baccomo F. Studio illegale, Marsilio, 2009.
Eco U., Il nome della rosa, Bompiani, 1980.
Kaneklin C., Manoukian F. O., Conoscere l’organizzazione. Formazione e ricerca psicosociologica, NIS, 1990.
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Normann R., La gestione strategica dei servizi, Etas, Milano, 1998 (1984).
Sennett R., Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, 2012 (2012).
Weick K.E., Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi, ISEDI, 1993.
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