Cosa rende collaborativi i rapporti di lavoro?
Per Richard Sennett (2012, pp. 166-198) sono necessarie tre condizioni: autorità guadagnata e riconosciuta, fiducia e rispetto reciproco, aiuto nelle situazioni critiche.
Non è dunque l’assenza di conflitti o tensioni che rende un ambiente di lavoro vivibile e produttivo, ma una socialità che non screditi le relazioni, non renda strumenti i lavoratori, non mini il senso del lavoro.
Sennett mostra come la frammentazione dei tempi, la svalutazione delle competenze professionali, la scarsa conoscenza dei contesti, l’isolamento, la pressione ad essere performanti, l’introduzione di forme di collaborazione temporanee e superficiali minino la socialità al lavoro. Insieme a queste condizioni corrosive, Sennett segnala la presenza di figure di autorità incompetenti, opportuniste, incapaci di assumersi le responsabilità connesse al loro ruolo, di guadagnarsi il rispetto dei collaboratori, di costruire gruppi di lavoro affidabili.
Nella sua analisi Sennett mostra come la fiducia e il rispetto verso i capi possa venire meno al punto da provocare risentimento sociale distruttivo e scissioni organizzative controproducenti.
Per parte mia ho raccolto una testimonianza che segnala un problema a cui Sennett non accenna: la mancanza di collaborazione fra manager e vertici aziendali. Sarei interessato a capire in che misura l’autoreferenzialità del top manager nei confronti dei consiglieri di amministrazione non sia parte di questo meccanismo di erosione della fiducia.
La competenza gestionale che non riconosce l’esigenza di un dialogo con figure che hanno ruoli di indirizzo e di controllo strategico, che esautora e delegittima le posizioni di governo, contribuisce ad ostacolare la circolarità delle competenze e a delegittimare le autorità indebolendone la capacità di azione.
Detto altrimenti: non sono solo i vertici a non dare ascolto e credito alle figure con compiti di direzione, coordinamento ed operativi. Possono essere anche i gruppi dirigenti a far mancare informazioni, conoscenze, strumenti ed esperienze a chi governa. Qualche giorno fa, al termine di una consulenza, mentre scendevo in ascensore ho raccolto lo sfogo del presidente di una media azienda sulla difficoltà a ricevere collaborazione dal suo direttore amministrativo:
«Quello che non va nel suo modo di lavorare – mi diceva scuotendo la testa un po’ sconsolato – è che non mi fornisce dati, elementi o valutazioni che mi aiutino a decidere. Si presenta con proposte preconfezionate, mi spinge verso la decisione che ritiene essere quella giusta. Giusta per lui. E mi sfida. Sembra che voglia mettermi alla prova per vedere se capisco, se sono all’altezza del mio ruolo. E se gli chiedo qualcosa, resiste. Sono stanco e incazzato. Non è così che si collabora!»
Riferimenti
Sennett R., Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, 2012 (2012).
ho letto con interesse e posso condividere in parte quanto detto dall’amministratore. Essendo CFO negli anni mi sono innumerevoli volte scontrato con questa realtà. Si ci sono molti collaboratori che non sanno collaborare e forse non vogliono per mantenere il loro “orto”. E pur vero però che nella maggioranza sono di più quei vertici aziendali che vorrebbero vedere i dati che gli fanno piacere invece che la realtà cruda. Su quest’onda di pensiero, non hanno mai dati a sufficienza e normalmente credono a chi nell’organizzazione, senza dati, li conforta o li “serve”. Questo difetto, purtroppo lo noto sempre più spesso nelle organizzazioni,(anche no profit), frutto immagino della situazione generale che viviamo e che non lascia spazio alcuno al riassorbimento come in passato sui margini degli errori strategici da parte del vertice. Ritengo particolare che con tutti gli strumenti a disposizione, se si ricerca veramente la verità oggettiva delle cose un Vertice sia esso Amministratore o Direttore generale, non riesca a trovare il modo di giungere al vero ed impostare un sistema di controllo che colga gli obiettivi. Scusatemi, ma proprio non ci credo, in via generale ovviamente, poi che qualche caso singolo ci sia è naturale, ma per mia esperienza rimane marginale. Probabilmente fare l”amministratore non è più come una volta.
Un paio di giorni stavamo percorrendo un tratto autostradale, quando abbiamo superato una vecchia macchina che, apparentemente stava perdendo il paraurti posteriore. Durante il sorpasso tutta la famiglia (stavamo tornando dalle vacanze) si è sbracciata per indicare al conducente il rischio del danno: questi ha risposto con un gesto che potremmo tradurre con “grazie, ma me l’hanno gia segnalato molti prima”. Mi sono chiesto, forse a causa dell’incombente rientro al lavoro, quali sono le ragioni che portano dei perfetti sconosciuti a cooperare: il fatto che probabilmente non avremmo più incontrato questa persona rende improbabile l’emergere del meccanismo studiato da Axelrod del “tit for tat” (http://it.wikipedia.org/wiki/Tit_for_tat), e dunque ad una forma di collaborazione più organica, più legata all'”antropologia dell’autostrada”, che talvolta porta, peraltro a comportamenti ai limiti della legalità, come segnalare con i fari la presenza della pattuglia della stradale. Mi viene in mente un altro libro di Sennett, “Rispetto”, forse proprio quel riconoscimento che nasce dal fatto di trovarsi “nella stessa barca” ci porta a collaborare, probabilemente ciò che non succede nelle nostre imprese, ci accorgiamo di essere nella stessa barca solo quando sta affondando, ma ormai è troppo tardi.
Questo tuo ultimo passaggio mi pare fondamentale, Graziano. Si collabora al meglio se ci si sente co-responsabili, nel senso che ci si sente di dover risponde insieme di un progetto, di un servizio, dell’operato di un organizzazione. A volte, paradossalmente, sono i vertici politici a non accettare la responsabilità dell’operatività e a desiderare soluzioni preconfezionate dai propri manager, senza condividere l’onerosa analisi alla base di ogni decisione. Grazie, come sempre, per gli spunti.
Ciao Davide,
è un po’ che non ci si sente.
Ieri sera, leggendo Murakami, ho trovato un bellissimo passaggio sulla responsabilità.
E tu nel commento parli di co-responsabilità…
Appena ho un attimo rilancio la citazione.
Graziano :-)
The public realm can be simply defined as a place where strangers meet.
The difference between public and private lies in the amount of knowledge one person or group has about others. In the private realm, as in a family, one knows others well and close-‐up, whereas in a public realm one does not: incomplete knowledge joins to anonymity in the public realm (Senne[ 2002: 265)…