Domande tra l’esigenza di curare il personal branding e una certa disper-confusione (dispersione-confusione e non disperata-confusione) che la varietà di luoghi, possibilità e connessioni 2.0 genera.
In ogni caso Diletta Cicoletti ci impiglia sulla questione dell’identità professionale (delle identità professionali?) e sulle connotazioni che il lavoro (si) prende in questo tempo incomprimibilmente digitale.
Mi viene voglia di scrivere.
Non posso.
Devo tornare al lavoro.
:-)
Se guardo in rete mi rendo conto di quanto in quest’ultimo periodo tutti curino molto il proprio profilo professionale: chi sei, quanto hai studiato, dove, come, con chi. Dove hai lavorato, come, con chi, perchè. A differenza di un tempo passato nel quale, per reperire informazioni su una persona si chiedeva in giro, oggi nel momento in cui mandi una mail a qualcuno è meglio assicurarsi che i tuoi profili online siano coerenti, sistemati, ordinati, aggiornati.
Non come faccio io.
Dopo un’intervista al telefono la giornalista mi richiama per chiedermi come desidero comparire: e capisco che la presenza dei miei settanta profili in rete, ognuno diverso dall’altro, possa aver creato qualche confusione…
Allora mi si propone una riflessione più impegnativa: io, professionalmente, come mi chiamo?
Ritorniamo in qualche modo ad una considerazione del profilo professionale identitario: se io ho 70 profili differenti do l’idea di fare 70 cose diverse oppure…
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