Questo è il tema su cui stiamo lavorando in questi giorni nel corso di Psicosociologia dei Gruppi e delle Organizzazioni (Laurea magistrale in Psicologia dei processi sociali, decisionali e dei comportamenti economici – Dipartimento di Psicologia – Università degli Studi di Milano Bicocca): come realizzare interviste esplorative che ci consentano di raccogliere elementi sulle organizzazioni o articolazioni organizzative (servizi, dipartimenti, aziende controllate) che abbiamo contattato?
Volendo rammemorare obiettivi e struttura del corso, si potrebbe dire che i gruppi di ricerca che si sono costituiti hanno il compito di sviluppare una ricerca conoscitiva (report) finalizzata a:
Mentre dal punto di vista dello sviluppo interno il corso si struttura con questa scansione:
L’intervista esplorativa ha come obiettivo la raccolta di informazioni sull’organizzazione, sul suo funzionamento, sulle questioni ancora non conosciute che si desidera cogliere e che potranno essere considerare e approfondite in una successiva fase.
Per semplificare si potrebbe dire che ci si muove tra due estremi l’intervista strutturata, quasi un questionario per come definisce gli aspetti da indagare, per come affonda sui temi, per come conduce l’interlocutore/trice ad esprimersi e a prendere posizione in aree definite e l’intervista aperta, che raccoglie storie di vita, che lascia spazio all’intervistato/a, che si limitata a sostenere con l’attenzione il racconto, che debolmente orienta verso temi generali.
Nell’intervista esplorativa che intediamo condurre conviene muoversi tra di due estremi indicati, evitando di circoscrivere le questioni da esplorare con domande che delimitino gli spazi di indagine, che conducono l’interlcutori proprio nelle direzioni che ci prefiguriamo. Inavvertitamente andremmo contro lo scopo di esplorare e agiremmo per approfondire, escludendo informazioni preziose, utili per individuare le linee di ricerca successive. L’indicazione è quella di preparare alcune domande generali, sulla scorta del mandato di ricerca e delle informazioni desunte dall’esame dei primi materiali raccolti e dal racconto del/la portatore/trice di caso, che abbiamo già avuto modo di ascoltare e poi eventualmente di intervistare. Per costuire la rosa di domande è opportuno partire da un elenco di questioni che si presentano come interessanti, e sulla base di queste identificare le domande che consentano di esprimersi nell’area in cui presumibilmente ricadono i punti chiave rispetto ai quali si intende raccogliere informazioni. Di seguito alcune domande per esemplificare la ricerca di domande che consentano ad un tempo di raccogliere elementi senza orientare eccessivamente la persona (o le persone) che stiamo intervistando:
Se le prime tre domande insieme all’acquisizione di informazioni mirano a entrare in tema e a sviluppare un clima collaborativo (sono domande ‘facili’), la quarta e le quinta domanda entrano nelle questioni che abbiamo in mente di indagare). A queste prime domande possono seguire domande più mirate, costruite sulle informazioni di cui già disponiamo e volte a sondare aspetti che abbiamo intravisto come interessanti e da approfondire. Ad esempio un gruppo sta studiando una ‘organizzazione immateriale’, che non ha sede, che esiste come raccordo fra figure che collaborano grazie alla mediazione di internet. Le domande in questo caso mirano sondare aspetti intravisti come interessanti:
Queste le domande che verranno poste, con l’idea di non eccedere e di lasciare ampi margini di espressione al nostro interlocutore/trice. Naturalmente è opportuno tenersi pronti con alcune domande di approfondimento. E per fare ciò conviene – come abbiamo detto – prepare un elemenco di questioni che si intendono esplorare e a partire da queste, costruire la rosa delle domande. Vedremo poi come questo elenco sarà essenziale per l’analisi delle interviste raccolte (cfr. terzo passo, poco oltre).
Non è sempre possibile determinare condizioni di contesto favorevoli alla realizzazione dell’intervista. Si va sul campo e si fanno i conti con le disponibilità delle persone contattate, con il loro tempo, le interruzioni, i ritardi, le contrazioni.
Ma è sempre importante fornire indicazioni su come verranno utilizzate le informazioni raccolte, per quale scopo l’intervista viene condotta e come verranno conservate (e successivamente distrutte) le notizie raccolte. Conviene collocare le tracce audio/video in archivi digitali con policy di tutela alte, evitando – se possibile – di farle transitare attraverso i social network. Di norma, raccolto il permesso della persona intervistata, l’intervista viene registrata. Accade che sia videoregistrata, in questo secondo caso è essenziale assicurare la massima cura affinché l’intervista non possa venire utilizzata o divulgata in modo improprio o accidentale (un conto sono le voci, un conto sono le immagini).
Può succedere che le persone non consentano l’uso del registratore. Può succedere che info importanti vengano segnalate a margine dell’intervista, a microfono spento, chiedendo di non registrare, o in momenti informali. Per questo è essenziale tenere a portata di mano un quaderno per appuntarsi informazioni inattese, da valutare successivamente, o proprio per trascrivere l’intervista concessa senza che sia consentito di servirsi del registratore.
Raccolta l’intervista, i passaggi da condurre con cura sono la trascrizione integrale e l’estrazione delle informazioni salienti in relazione agli interessi di ricerca.
Il tempo richiesto per trascrivere accuratamente una intervista è di circa il quadruplo della durata dell’intervista, se un’intervista dura 30 minuti, saranno necessarie due ore per ottenere un testo aderente al parlato e completo. Non è necessario (almeno per interviste esplorative, in relazione ai nostri scopi di ricerca) utilizzare rigidi criteri di trascrizione. Convenzioni possono essere naturalmente usate, per ottenere ciò che conta: l’accuratezza.
Di norma, proprio per tutelare l’organizzazione, è opportuno non rendere rintracciabile l’organizzazioni e le persone, per questo nella trascrizioni si omettono o si alterano le informazioni che potrebbero consentire di rintracciare le organizzazioni e le persone che vi lavorano, e al termine della ricerca si ha cura di archiviare con cura (o di distruggere il materiale raccolto).
A questo punto, il materiale acquisito e trascritto è pronto per essere esaminato. Propongo di seguito di utilizzare una tavola sinottica, costituita da quattro fogli A4. I fogli vengono suddivisi in tabelle a doppia entrata. Ciascuna colonna corrisponde ad una persona intervistata, mentre le righe vengono riservate ai contenuti. Dicevo quattro fogli A4 (di più ovviamente se il materiale è corposo):
Questa articolazione sinottica consente una visione d’insieme e favorisce la comparazione e l’aggregazione di informazioni da considerare per stendere il documento di analisi delle interviste.
A proposito di metodi e tecniche nella ricerca esplorativa, c’è un aspetto che vorrei rimarcare citando di Georges Devereaux, riprendolo da François Laplantine in Identità e métissage. Umani al di là delle appartenenze, Eléuthera, 2004 (1999). Una citazione che consente di introdurre una distinzione sugli strumenti per fare ricerca e sui pensieri che ne determinano aspettative, scelta e uso. Un conto è muoversi pensando di conoscere o conoscendo quanto basta la realtà che si vuole indagare, utilizzando quindi gli strumenti non dico per confermare, ma per approfondire l’ipotesi di ricerca, estendere e perfezionare le conoscenze, un conto è muoversi cercando di amplificare la capacità ricettiva, assumendo di disporre di relativamente poche precomprensioni. (Non che una prospettiva surclassi l’altra, sono semplicemente due possibilità, che rispondono ad esigenze e a risultati diversi, ciò che conta sono consapevolezza e perizia nella scelta e nell’impiego di uno dei due approcci).
Niels Bohr ha mostrato in qual misura un dispositivo sperimentale determina il luogo della demarcazione [tra il soggetto e l’osservatore] analizzando un’esperienza molto semplice: l’esplorazione di un oggetto mediante un bastone. Se il bastone è tenuto in modo rigido, diventa un prolungamento della mano; il luogo della demarcazione si trova dunque all’‘altra’ estremità del bastone (quella più lontana). Se è tenuto in maniera lasca, dal punto di vista della percezione esso non fa parte dell’osservatore; la demarcazione si situa quindi a ‘questa’ estremità del bastone (quella più vicina).
Sebbene Bohr non abbia approfondito la sua analisi di questa esperienza, la non-coincidenza di queste due demarcazioni, dovuta al fatto che l’esperienza del bastone tenuto rigidiamente fornisce principalmente dati cinestetici, mentre quella del bastone tenuto mollemente fornisce soprattutto dati tattili, rimanda tanto alla logica quanto alla psicologia.
[…] Nell’esempio di Bohr, il bastone tenuto con forza fa più parte dell’osservatore che dell’oggetto. Tenuto in modo più lasco, fa più parte dell’oggetto che dell’osservatore. Questi due modi di tenere il bastone costituiscono un paradigma per ogni esperienza e osservazione nella scienza del comportamento. Tutte le esperienze che non lasciano al soggetto alcuna scelta cosciente né alcun mezzo per riflettere sul comportamento, che non includono, quanto meno in linea di principio, le nozioni di scelta cosciente e di coscienza, corrispondono all’esperienza del bastone tenuto con fermezza. Le esperienze che permettono una scelta cosciente nella quale l’osservatore è libero di pensare che il comportamento del suo soggetto riflette o implica una scelta cosciente corrispondono all’esperienza del bastone tenuto mollemente.
Tutte le esperienze della scienza del comportamento sono sia del tipo ‘bastone rigido’, si del tipo ‘bastone lasco’. La maniera in cui teniamo il bastone è determinata dalle teorie cui facciamo riferimento e che, a loro volta, ne sono radicalmente influenzate. Le esperienze del tipo ‘bastone rigido’ forniscono informazioni del genere che William James definisce “conoscenza a proposito di” (knowledge about), quelle del tipo ‘bastone lasco’ forniscono informazioni del genere definito “familiarità con” (acquaintance with).
[…]
p. 20-21
Georges Devereaux, Dall’angoscia al metodo nelle scienze sociali, Severi-Treccani, 1984.
Il suggerimento è di procedere con garbo, evitando di imbracciare i metodi spietatamente, e di spianare le tecniche ad alzo zero.
Prudenza.
Nella ricerca un po’ di circospezione (lo ripeto a me stesso tutte le volte, e non me lo ripeto mai abbastanza) è essenziale: più si vuole andare al punto, più il punto sfugge. In questa esperienza di ricerca corale che è il corso – dieci gruppi di ricerca, composti da otto-nove persone ciascuno – un aspetto da considerare (aspetto che non si realizza spesso) è la quantità di persone contemporaneamente coinvolte nel lavoro sul campo. Ci si trova in una condizione non usuale: di norma pochi ricercatori/trici sono impegnati/e a raccogliere informazioni da molti contatti; in questo caso molti ricercatori/trici entrano in contatto con un numero relativamente ristretto di persone: l’attivazione delle persone intervistate è certa, per questo è necessario muoversi con circospezione, contenendo l’irruenza e l’interventismo.
Varietà.
La tecnica dell’intervista è apparentemente povera. Ma non è così, ad usarla con proprietà fornisce una buona messe di informazioni. E in ogni caso non è l’unica impiegabile. Nulla vieta che all’intervista segua un questionario o focus-group di approfondimento. Le interviste si possono accompagnare con richieste di produrre disegni per rappresentare e approfondire una determinata questione. Il garbo di cui al primo punto non inibisce la creatività curiosa. Si tratta di valorizzare le pluralità di approcci possibili e le varietà di impieghi (anche condizionati dal contesto) dei diversi approcci. Insieme alle interviste è possibile analizzare documenti e testi, o anche porsi in una posizione di osservazione e di ascolto di quello che accade o che viene provocato dal nostro ingresso sul campo.
Memoria.
Nel lavoro di ricerca è utile documentare il lavoro svolto con cura: il diario di ricerca è un supporto essenziale e la nota metologica nel rapporto conclusivo non può mancare. Essa ci consentirà di:
François Laplantine in Identità e métissage. Umani al di là delle appartenenze, Eléuthera, 2004 (1999).
Georges Devereaux, Dall’angoscia al metodo nelle scienze sociali, Severi-Treccani, 1984.
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