Raffaele Cantone rilascia una intervista ad Avvenire che la pubblica online, con il titolo “Recuperare lo spirito cooperativo”, lunedì 3 agosto 2015.
Tutto il resto sono opinioni.
Provo a ricostruire i passaggi che Cantone affronta:
[complice la domanda mal posta, qui scatta un corto circuito: si è partiti parlando delle cooperative sociali B e nella domanda successiva Cantone far riferimento alle cooperative sociali A]
In sintesi i nuclei argomentativi sviluppati da Cantone sono tre:
Cantone dà una lettura allarmante della situazione in cui versa il mondo cooperativo (e del sotto sistema ‘cooperazione sociale’). Non solo le modalità di affidamento dei servizi presentano falle, ma è la cooperazione stessa ad avere perso l’orientamento nel mercato, non ha vigilato e non ha reagito, e con il senso della sua azione imprenditoriale ha smarrito la sua funzione culturale. La cooperazione è in decadenza, e pretende di affermare che non sia così.
I rapporti con i partiti [Cantone non accenna agli apparati amministrativi] rimangono clientelari, di scambio di favori. Il sistema di finanziamento andrebbe ripensato, estendendo vincoli di trasparenza ad attori pubblici che hanno la forza di condizionare il dibattito pubblico: i sindacati e le fondazioni.
A proposito dell’antimafia, Cantone riferendosi al rating di legalità (il bollino antimafia), segnala il rischio che si riduca a un marchio dal sapore commerciale, senza che si producano discontinuità concrete nelle economie e nelle culture dei territori in cui la mafia è radicata. Lo stesso movimento antimafia, frammentandosi, va perdendo la tensione ideale e di trasformazione civile che lo ha animato.
Forse Cantone (un po’ di fretta) intendeva dire che alcuni mondi su cui far conto sono attraversati da crisi profonde, sottaciute e quindi non affrontate.
Per non attenuare le parole di Cantone, evito le argomentazioni facili:
Su una lettura ‘politica’ ha già scritto Gigi Bettoli (le sue riflessioni meritano di essere considerate, e non le derubricherei al rango di ‘reazioni a caldo politicizzate’). Certo mi colpisce che un’intervista di questo tenore sia uscita su Avvenire: sul piano politico (anche se può sembrare strano) è medium più neutro rispetto ad altri quotidiani. O la platea destinataria delle parole di Cantone è quella che (non) legge il quotidiano della CEI, ma che lo considera portatore della linea mediana, rispetto alla quale collocarsi (forse Cantone intendeva rivolgersi all’area politico culturale che si richiama – con sensibilità diverse – alla dottrina sociale della Chiesa, chissà…).
Rileggendo l’intervista mi ha attraversato il pensiero che Cantone, nel decretare la caduta della cooperazione (e della cooperazione sociale), aprisse spazi ad altre forme di imprenditorialità sociale, forme che – prendendo distanza dal modello cooperativo – diano maggiore spazio alla assenza di lucro e al volontariato; ma forse è un’eco dell’antica querelle che vuole cooperazione sociale e associazionismo nonprofit contendersi il mercato sociale (Gigi Bettoli ha peraltro chiarito il senso dell’impegno volontario). Forse Cantone sta dicendo che di una cooperazione inaffidabile (e dei vantaggi che le vengono riservati) possiamo anche fare a meno: riportiamoci ad un capitalismo temperato e dimentichiamoci le retoriche cooperativistiche.
Eppure qualcosa nei ragionamenti di Cantone non torna: la responsabilità delle amministrazioni pubbliche è completamente sottaciuta. Non lo segnalo a difesa della cooperazione, semplicemente rilevo che il ragionamento non funziona: l’illegalità prospera sia perché ci sono soggetti che la ricercano come condizione per operare (la cooperazione nell’intervista), sia perché i soggetti tenuti a vigilare non lo fanno (apparati istituzionali). In effetti di considerazioni sul compito delle istituzioni di operare come co-regolatori di accesso a un mercato delicato come quello sociale non vi sono tracce. L’illegalità nasce nelle saldature relazionali improprie: non bastano le cattive intenzioni unilaterali. Non illuminando la dinamica collusiva si perde la possibilità di essere incisivi e prevale la colpevolizzazione morale.
Ma assumiamo che Cantone abbia molte buone ragioni per dire quello che ha detto, non foss’altro per via della sua collocazione al vertice dell’Autorità Nazionale Anticorruzione – ANAC), e che disponga di informazioni vaste e circostanziate (anche se nell’articolo non si fa cenno a dati o a ricerche).
Provo dunque a mettere da parte la prima reazione che scatta (lavorando in prevalenza nel mondo della cooperazione sociale e in una cooperativa) alla lettura delle affermazioni di Cantone. Per lo spaccato che conosco direttamente, la situazione non mi sembra al punto di non ritorno (ma la prospettiva di un consulente è ristretta e particolare). Se dovessi dire, credo che la fase dello ‘stato nascente’ sia alle spalle, la cooperazione sociale è in profonda trasformazione, i segnali di fragilità ci sono e sono diffusi. Ma non userei il termine decadenza, piuttosto ho l’impressione che una parte di cooperazione sociale sia spiaggiata (e non sia facile intervenire), mentre vi sono segnali di rielaborazione e di ripresa. Un secondo aspetto che non viene considerato è che le letture totalizzanti non restituiscono la complessità dei fenomeni: la cooperazione è un sistema dai comportamenti variegati (perché variegate sono le provenienze culturali).
E prima di farmi paralizzare dal tono oracolare dell’intervista (e dal mix di nodi: fine della cooperazione, simbiosi autodistruttiva tra cooperazione e partiti, intorbidimento del movimento antimafia), sento l’esigenza di esaminare qualche dato per inquadrare i fenomeni (oppure non rimane che leggere la denuncia di Cantone come l’ultimo segnale prima della catastrofe). Qualche dato che restituisca una lettura dell’azione e dell’impatto della cooperazione, che segnali le linee di faglia, che consenta delineare quadri nella loro dimensione (apocalittica o evolutiva).
Di qui tre proposte (l’intervista avrebbe forse avuto diverso impatto se con le denunce Cantone avesse segnalato alcuni possibili azioni).
Rimane aperta la questione di cosa Cantone intendesse dire e a chi. Forse un confronto pubblico sarebbe interessante e utile. O una nuova intervista: non dovrebbe essere impossibile preparare domande più puntuali.
O, in modo più costruttivo, segnalare l’opportunità di partecipare alla consultazione per la definizione delle Linee guida per l’affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali che ANAC sta promuovendo (dal 06 luglio al 10 settembre 2015).
Non esistono meccanismi di appalto che garantiscano, di per sé, la massima trasparenza. Nemmeno quelli aperti a tutti e al massimo ribasso.
E non esistono disciplinari di gara, nemmeno quelli a offerta economicamente più vantaggiosa, che garantiscano la commessa alla migliore impresa (e non, per esempio, a quella più attrezzata nello scrivere il progetto tecnico).
La riflessione sulla presunta diversità del mondo della cooperazione o su una sua ri-affermazione su basi riformate porta, a mio avviso, fuori strada: il “noi” è de-responsabilizzante, sempre, mentre i reati li commettono individui che s’incontrano e che si accordano in modo illecito (sia pure, a volte, con intenzioni non lucrative per se stessi in quanto singoli).
Dell’ipotesi di un ottavo principio della Cooperazione mi piace il potenziale educativo: “Rispetto e promozione della legalità” deve diventare un impegno verso le nuove generazioni (le quali, diciamocelo, non conoscono quasi per nulla il mondo della cooperazione), allora potrà essere davvero efficace.
Andiamo a parlare di cooperazione e di legalità agli studenti?
L’unico controllo efficace è quello sociale, in questo concordo con Bettoli: occorre ri-pensare, ri-valutare e riformare tutte quelle pratiche che consentono la co-progettazione e la progettazione partecipata, più allargata e trasparente possibile.
Aperta a tutti, certo, anche al profit, senza esaltare alcuna diversità: se lavoriamo bene, essa emergerà da sola.
Ciao Graziano!