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Pensieri, esplorazioni, ipotesi. Un confine incerto tra personale e professionale.

La crisi non è solo un patatrac

Di crisi si parla molto, con una frequenza inarrestabile, con un’estensione che sembra pervadere tutte le sfere della nostra vita. Nella crisi tutto va in crisi. E questa banale constatazione mi lascia spiazzato e attonito. Mentre credo che sarebbe già un’azione non dispersiva provare ad avvicinare le dinamiche della crisi, il modo di manifestarsi, di propagarsi, il ‘funzionamento interno’ delle situazioni di crisi (e scoprire magari che ci sono crisi che hanno configurazioni diverse…).

Leggendo la voce Anomia, contenuta nel Dizionario di Psicosociologia (Milano, Cortina Editore, 2005, pp. 17-23), c’è un passaggio che mi ha fatto pensare, in cui mi sono ritrovato, e che mi sembra descriva abbastanza bene l’essere o meno in uno stato di crisi. [Sì, certo, per prima cosa si può notare che una condizione di anomia, di assenza di legge, di sfaldamento delle regole, è già un segnale di uno stato di crisi.] Il passaggio che mi ha colpito si trova a pagina 19. L’autore – Jean-Claude Filloux – identifica cinque dimensioni per descrivere l’essere o meno in una condizione anomica: se prevale una polarità positiva si sente di far parte di un sistema ben regolato (eunomia), se prevale invece la polarità negativa ci si trova in una situazione di alienazione e di crisi.

Ecco le cinque dimensioni per come le ho rielaborate:

  • Sentire le autorità (i riferimenti per noi importanti) come attente o, al contrario, indifferenti ai nostri bisogni;
  • Percepire il mondo come conoscibile e comprensibile o, al contrario, come imprevedibile e disordinato;
  • Ricercare e coltivare progettualità vs. rifiutare l’idea di progetto e di investimento sul futuro;
  • Sentire che la vita e le cose che facciamo hanno un senso vs. avvertire una perdita di senso dei valori sociali e dell’esistenza stessa;
  • Sentirsi accolti e sostenuti vs. avere l’impressione che le persone vicine non ci offrano (o non ci possano) offrire sostegno.

A mio modo di vedere le cinque condizioni negative esplicitano con chiarezza quello che sento come condizione di crisi: perdita di riferimenti, incapacità di ‘tenere’ e puntare sul futuro, smarrimento del significato delle cose che facciamo, essere in difficoltà e poter ricevere aiuto. Condizioni che mi sembra di riconoscere in molti discorsi di persone che comunicano condizioni soggettive o organizzative di crisi.

Se fate un salto su Otta 2.0 il blog di Giancarlo Ottaviani, verrete indirizzati ad un articolo del Wall Street Journal sulla crisi. Non sono certo di avere compreso a pieno, ma dal punto di vista finanziario (e poi economico, e poi sociale) la crisi è l’impossibilità di fare fronte agli impegni presi. La crisi è l’insostenibilità della situazione, una insostenibilità che avrà effetti nel futuro, ma che per il fatto di esserne consapevoli ha già effetti nel presente: non ce la faremo, e già non ce la facciamo (stiamo già camminando oltre il cornicione). La crisi è il crollo della fiducia e della speranza. La crisi è collasso, cedimento strutturale, implosione.

Mi sembra di ritrovare i cinque punti segnalati, con variazioni e differenze forse non irrilevanti:

  • Le autorità agiscono con ambivalenze: intervengono con azioni straordinarie e contemporaneamente minimizzano lo stato delle cose. Forse più che indifferenza traspare impotenza e manipolazione (e un impegno comunicativo che punta più a placare che a spiegare).
  • Il mondo è cumulativamente imprevedibile e disordinato: ogni giorno ce n’è una, non si finisce mai. E quando sembra che una soluzione (anche parziale) sia stata trovata, subito si rincorrono le voci di una nuova voragine, voci che vengono confermate e amplificate (non è vero che la vita è tutta un quiz, è tutta un trucco). Si tratta di imprevedibilità e disordine intermittenti e fluttuanti, barcollanti.
  • I progetti richiederebbero investimenti economici (emotivi e relazionali) molto consistenti, ma sono sconsigliati (non ne vale la pena, non c’è da fidarsi).
  • Se crolla il nostro modello di sviluppo, se va in crisi l’Occidente, se gli Stati Uniti d’Europa non sono più un progetto politico dotato di senso, su cosa possiamo investire? Ha davvero senso ritirarsi, alzare i ponti levatoi, riattivare i fossati, quando è di un terremoto che stiamo parlando?
  • Di chi ci si può fidare? A chi ci si può rivolgere? Con chi affrontare la crisi?

Non sono sicuro di capire bene. Certo sono preoccupato.

2 comments on “La crisi non è solo un patatrac

  1. Otta
    19 May 2010

    Partendo dall’etimo http://www.etimo.it/?term=crise, SEPARARE e SCEGLIERE… si scopre che spazi positivi ci devono essere. Occorre rimettere in discussione il paradigma su cui è costruita la “cattedrale” dell’economia: LIBERO MERCATO-PROFITTO-CRESCITA. Ce l’hanno venduto bene il paradigma, ma si sono dimenticati di alcuni termini: libero mercato-DEBITO-profitto-EGOISMO-crescita-CONCENTRAZIONE DELLA RICCHEZZA. Risolviamo i caratteri in grassetto e riflettiamo sul concetto di CRESCITA/SVILUPPO e abbiamo “risolto” il problema. Separare e scegliere.

  2. Martina Cecini
    19 May 2010

    Possiamo avvicinare la parola crisi, fragilitá, alle parole RISORSE, SFIDE?
    Quali altri aspetti della nostra vita potrebbero
    uscirne o avere una possibilita’ creativa, di crescita?
    Quando si chiudono delle opportunita’ non
    potrebbero aprirsene altre?
    Quali? Pensiamoci su un poco…

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