La fatica di educare
Cosa vuol dire essere un buon genitore? Una domanda che spesso mi gira per la testa e che – sono giunto alla conclusione provvisoria – ha molte risposte.
Si tratta sicuramente di un compito impegnativo, questa forse una delle poche certezze.
Scrivo genitore ma penso alle molte figure adulte che si prendono cura dell’educazione e della crescita di bambini e ragazzi: oggi sono sempre più i nonni, gli operatori dell’infanzia, gli insegnanti, e in alcuni casi gli operatori sociali a partecipare a questo compito complesso e articolato.
Dalla lettura del libro di Asha Philips, I no che aiutano a crescere (pubblicato da Feltrinelli nel 1999), ho trovato spunti interessanti che mi hanno aiutato a rispondere alla domanda di apertura. Ho ripensato al ruolo dei “no” in chiave educativa: due lettere molto importanti, necessarie alla crescita dei figli.
Un “no” non è necessariamente un rifiuto ai bisogni dell’altro o un abuso della nostra forza, ma il corollario necessario del “si”. Dire “no” è come prima cosa faticoso, ma fondamentale per la relazione tra adulti e figli; ha un peso determinante nella formazione della personalità dei bambini.
E’ importante aver presente che spesso i ragazzi cercano un limite, mettendo in atto vere e proprie provocazioni; sebbene la loro prima reazione possa essere di rabbia, verso il vincolo che viene posto e la persona che l’ha pensato, in un secondo tempo apprezzano che qualcuno li abbia contenuti, non cedendo su un terreno in cui spesso la fanno da padroni.
Concedere è più facile che negare, ma allo stesso tempo rischia di trasmettere nei più piccoli un senso di invincibilità e plenipotenza.
Crescendo ci si rende presto conto che la realtà non corrisponde esattamente al microcosmo domestico. La vita comunitaria, la scuola in primo luogo, le prime esperienze lavorative in un secondo tempo, sono i primi terreni in cui si mette in gioco la propria autonomia e indipendenza e che fungono come veri e propri banchi di prova. Se il divario è troppo grande il rischio è che si possa assistere ad un’involuzione nello sviluppo con conseguente incapacità di affrontare il mondo reale.
Alberto Ponza psicologo, lavora nei Servizi Sociali rivolti ai minori e alle persone con diagnosi psichiatrica. Svolge attività di ricerca nell’area della psicologia della salute.
Nel rileggere il post di Alberto Ponza per la pubblicazione mi sono venuti in mente tre flash.
Primo: i ‘no’ aiutano a crescere anche i genitori che li affermano e che li mantengono? E in che modo? Ci si sente più capaci di stare nell’imprensibilità delle relazioni con i figli? Si avverte che si mettono alcuni (sensati) punti fermi? Ci si accorge che è quello che è opportuno fare e allora ci si sente un po’ meno spiazzati nel tenere la posizione di genitore?
Certo ci sono tanti ‘no’ alcuni dettati dall’irritazione, dal disappunto, dalla rabbia, dall’impotenza… Anche quei ‘no’ – a modo loro – possono aiutare a crescere come genitori. Ci si accorge di quanto si è fragili. Qualche volta ci sono dei ‘no’ semplici, piani, diretti, chiarificatori. ‘No’ che sono semplici e riportano la calma (ma, almeno per quanto mi riguarda, sono pià rari).
Secondo: ci sono anche i ‘no’ che ci dicono i figli. Anche questi li aiutano (ci aiutano) a crescere.
Terzo: ci sono ‘no’ tra adulti. Anche questi sono interessanti. Non so se hanno a che fare con l’educare. Forse con l’educarsi (ma sono quasi imbarazzato ad usare questa parola).
O no?