La sua soddisfazione è il nostro miglior premio: felicità e lavoro, un binomio impossibile?
Sgombriamo subito il campo da alcuni possibili dubbi: esistono lavori che, per la loro stessa natura, mal si coniugano con la felicità. Vuoi per la loro pesantezza, per la pericolosità nelle mansioni, per la necessità di allontanarsi da casa, o più semplicemente perché non è il lavoro che abbiamo scelto… Ci sono tantissimi casi in cui è veramente difficile essere soddisfatti del proprio lavoro e, in questi casi, poche altre soluzioni ci sono se non l’opzione “exit”: cercare un’alternativa.
Il punto, a parer mio, è che di questi tempi le alternative sono veramente poche e difficili. Se penso a quante centinaia di migliaia di giovani (più o meno formati o professionalizzati) non riescono neppure ad accedere al mercato del lavoro, o vi accedono a condizioni vessatorie, mi verrebbe da proporre una prima banale conclusione: nelle indagini in cui si cerca di “calcolare” la soddisfazione dei lavoratori, si è mai valutata la variabile minima sufficiente? Ossia, si è mai dato peso all’ipotesi che pur non essendo soddisfatti del proprio lavoro spesso l’unica alternativa è… il non lavoro? Ecco perché guardo sempre con sospetto e con un certo senso di pudore alle numerose ricerche che vogliono comunicarci “quanto” e “come” valutare la soddisfazione dei lavoratori. In gran parte essa dipende, a parer mio, dal grado minimo che ciascuno attribuisce al concetto di felicità. Per alcuni essa fa rima con ambizione, per altri fa rima con sopravvivenza. Come muoversi su questo continuum per fissare il punto minimo sufficiente per poter dichiarare un lavoratore soddisfatto? Agli scienziati l’ardua risposta. I dubbi mi rimangono.
Il rischio è di cadere in un perverso cortocircuito, dove tra un tasto Q e un circuito Z si perde completamente di vista il “senso” del lavoro. Ecco una cosa che poche o pochissime indagini riescono a far emergere: come, attraverso quali processi, ricostruire il “senso” del proprio lavoro? In che modo è possibile sentirsi parte di un’organizzazione, di un circuito produttivo, senza poter partecipare alla formazione di “senso” del proprio lavoro? Sono convinto che laddove ciò sia possibile, laddove si possa abbracciare (quando non sposare) le finalità ultime delle nostre azioni produttive (siano esse valori, principi o semplici target commerciali), la soddisfazione verso il proprio lavoro abbia buone chances di rivelarsi quale elemento fondante e meritorio delle fatiche quotidiane. Soddisfazione come “senso”, “significato” del lavoro, e quindi come ingrediente necessario per la propria personalissima idea di felicità.
Personalmente svolgo un lavoro che potrebbe essere raccontato in tantissimi modi. Se dovessi attenermi ad una fredda descrizione del mio mansionario, passo le giornate a: fare fotocopie, fissare date in agenda a docenti e ricercatori, inoltrare richieste di finanziamento a enti pubblici e privati, registrare il fabbisogno formativo di studenti e imprese. Il tutto per 8 ore al giorno, 5 giorni a settimana, 365 giorni l’anno. Roba da suicidio.
L’altra lettura possibile è: sono il referente dell’area formazione di un importante Istituto di ricerca impegnato su temi a me cari: la cooperazione e l’impresa sociale. Ho la possibilità di partecipare alla progettazione di percorsi formativi che intendono formare giovani studenti e aggiornare attempati manager sulle potenzialità imprenditoriali di queste particolari tipologie di impresa. Ma soprattutto: conosco e vengo in contatto con persone spesso interessantissime, ne seguo la loro crescita, vedo gli effetti delle azioni formative.
Concludo con una domanda, a cui ovviamente non ho risposta: è possibile aumentare la soddisfazione (e con essa la felicità) delle persone che lavorano per noi e assieme a noi, cercando di costruire assieme un framework condiviso e dotato di senso? In cui gli obiettivi materiali siano ben equilibrati da meta-obiettivi intellettuali e relazionali? In che modo fare questo?
L’alternativa, molto più semplice, è rispondere sempre che “Il dottor Thomas non è in sede”, e sperare che non salti il circuito Z.
Paolo Fontana
33 anni, laureato in Sociologia.
Referente Area Formazione di EURICSE
Membro del Consiglio Direttivo del CSV Trento ma, soprattutto, rappresentante dei genitori nell’asilo nido di mia figlia.
Nel tempo libero amo il silenzio assordante delle cime dolomitiche, possibilmente con un paio di amici e un panino al prosciutto.
Credo che quella che evidenzi sia “la grande questione dimenticata”. O meglio, la tematica di cui tutti parlano ma che pochi (mi riferisco a chi ha responsabilità dirigenziali) riesce a far si che si sviluppi nella prassi: la crescita umana nel lavoro, la realizzazione di se stessi.
Da più parti si afferma che questa soddisfazione si possa trovare nel terzo settore, perchè qui si pratica l’azione collettiva, lavoratore e impresa stabiliscono un contratto psicologico oltre che monetario.
in un PAESE globalizzato, rispettare i doveri e i propri diritti potrebbe gia consirarsi felice