Il disegno qui sopra prova a rappresentare una stanza colloqui.
In queste settimane sto lavorando con un’organizzazione privata che opera nei capoluoghi di provincia dell’Emilia Romagna e delle Marche. Ogni giorno nelle sedi operative di questa organizzazione si presentano o vengono convocate decine di persone per colloqui di orientamento e ricerca di lavoro.
Oggetto della consulenza i processi di accoglienza delle persone che accedono ai servizi offerti dall’organizzazione.
Negli ultimi anni le indagini di soddisfazione rivolte agli utenti hanno segnalato luci e ombre nell’apprezzamento dei servizi. Anche il personale segnala che non tutto funziona alla perfezione.
Il tema è complesso e qui accenno a un aspetto apparentemente marginale: la gestione del tempo nei colloqui e ai riverberi che ciò ha nei confronti dell’offerta dei servizi.
Forse due cose.
La prima è immaginare che nelle stanze colloquio vi sia alla parete un orologio.
La seconda è che se orologio ci deve essere, è forse il caso che non stia alle spalle delle persone che partecipano al colloquio da utenti/clienti, ma in un posizione contemporaneamente accessibile allo sguardo di chi – con ruoli diversi – si incontra.
La questione del tempo e della sua gestione, lo avrete intuito, era una delle questioni segnalate dagli utenti e dagli stessi operatori del servizio come uno degli elementi di insoddisfazione. Lunghe attese, appuntamenti non rispettati, persone che lasciavano perché impossibilitate a trattenersi, appuntamenti rimandati perché le sale per i colloqui finivano per essere occupate più del tempo per il quale erano state prenotate…
La questione è stata posta da qualcuno (in particolare dal personale che cura il servizio di reception) in termini forse brutali: il tempo per i colloqui va contingentato.
Eh, già, ma in che modo?
E con quali effetti sull’efficacia dei colloqui di orientamento?
Le sale colloquio devono essere spazi atemporali?
I colloqui devono durare tutto il tempo che serve o ci sono tempi di colloquio e un tempo organizzativi da rispettare?
Ciascun operatore può decidere da sé qual è la durata ottimale di un colloquio?
Se sì perché, se no perché?
Haruki Murakami nel racconto La scimmia di Shinagawa – ultimo della raccolta I salici ciechi e la donna addormentata – narra di una giovane donna, Andō Mizuki, che incontrando sempre maggiori difficoltà nel ricordare il proprio nome, decide di avvalersi dei servizi di un “Centro di sostegno psicologico” pubblico.
Quel giorno, quando si presentò alla “sala di consultazione”, al terzo piano del palazzo municipale, scoprì di essere l’unica paziente.
– È un programma che abbiamo messo su di recente, in poco tempo, – le spiego la donna alla reception, – può darsi che la gente non ne sappia ancora nulla. Vedrà che quando si spargerà la voce, ci saranno molte persone. È fortunata, lei, ad essere la sola.
La psicologa, che si chiamava Sakaki Tetsuko, era una simpatica donna di mezza età, piccolina e piuttosto in carne.
[…]
– Lei è la prima a presentarsi. Grazie per la fiducia. Oggi non sono previsti altri pazienti, quindi possiamo parlare senza fretta, in tutta tranquillità.
– Lieta di conoscerla, – disse Mizuki, chiedendosi in cuor suo se si fosse rivolta alla persona giusta.
– A prescindere da quanto le ho detto, io sono una psicologa qualificata, e ho una lunga esperienza professionale. Quindi non si preoccupi, la nave su cui è salita è solida, – aggiunse sorridendo come se le avesse letto nel pensiero.
p. 350-351
Haruki Murakami, “La scimmia di Shinagawa”, ne I salici ciechi e la donna addormentata, Einaudi 2010 (2006), pp. 345-376.
[…]
Passarono così due mesi. Ogni mercoledì Mizuki andava al terzo piano del municipio di Shinagawa per parlare con la psicologa. Le persone che andavano per consultarla erano aumentate, e la durata dei colloqui si era ridotta da sessanta a trenta minuti, ma essendo ormai abituate l’una al ritmo dell’altra, riuscivano a sfruttare al meglio quella mezz’ora. C’erano volte in cui Mizuki avrebbe voluto dilungarsi un po’, ma per una spesa così modesta non poteva chiedere troppo.
– Con oggi ha già fatto nove sedute… – le disse un mercoledì la signora Sakaki, cinque minuti prima dello scadere del tempo. – La frequenza con cui dimentica il suo nome non è diminuita, ma al momento neppure aumentata vero?
p. 363
Haruki Murakami, “La scimmia di Shinagawa”, ne I salici ciechi e la donna addormentata, Einaudi 2010 (2006), pp. 345-376.
Mi servo delle due citazioni dal racconto di Haruki Murakami per qualche considerazione generale. Utilizzerò una porzione maggiore di questi stessi estratti per sottolineare – in un successivo post – alcuni aspetti delle fasi di tra utenti e servizi. Qui, per ora, rilevo che Sakaki, la psicologa, nell’accogliere e nell’aiutare Mizuki a orientarsi non solo le fornisce informazioni sull’ambiente (sullo spazio) ancora non perfettamente allestito e sulle sue credenziali (si presenta e si qualifica), ma ha cura di fornire anche informazioni sul tempo a disposizione: «Oggi non sono previsti altri pazienti, quindi possiamo parlare senza fretta, in tutta tranquillità». Un’informazione banale, di circostanza se si vuole. Eppure è un’informazione che immette alcuni vincoli relazionali non secondari: il tempo non è una variabile assoluta, ma relativa: relativa all’accesso al servizio di diversi pazienti. Il tempo è una risorsa limitata e suddivisibile: oggi non c’è necessità di rispettare un tempo rigido perché non ci sono altri pazienti, è una circostanza anomala, non c’è fretta, possiamo stare tranquilli. Ma non appena il servizio andrà a regime dovremo rispettare il tempo a disposizione, affinché ce ne sia a disposizione anche per altri. Ci si trova dunque in un luogo e in una relazione regolata dal tempo e che regola il tempo per potersi sviluppare.
Due mesi dopo, apprendiamo dalla voce narrante che le persone che accedono al servizio di consulenza psicologica sono aumentate e che la durata delle sedute è passata da sessanta minuti a trenta. Siamo in un servizio pubblico, Mizuki avrebbe voluto avere più tempo, ma comprende che non è possibile, anche in considerazione della tariffa bassa che paga. Ancora una volta il tempo è qualcosa di regolabile e di vicolato: vincolato alla richiesta di altri interventi da parte dei altri pazienti e al costo ritenuto non particolarmente oneroso.
I due passaggi che ho sottolineato mi hanno fatto riflettere su come la risorsa tempo possa essere o meno considerata nello svilupparsi di una relazione di aiuto [e immagino che ci sia molta letteratura che purtroppo non conosco]. In diversi servizi la variabile tempo non solo è molto elastica, ma non è possibile comprenderne le ragioni, che possono dipendere dalla complessità delle questioni affrontate, da sovraccarichi, da esigenze organizzative (non sempre segnalate), o da modalità soggettive (seppure fondate) di condurre gli interventi.
Pensando al tempo nei lavoro di aiuto si possono segnalare due aspetti. Il risvolto che ha il tempo (e la sua disponibilità) nella costruzione e nell’evoluzione delle relazioni. L’importanza che ha il tempo nell’integrare funzioni e operatività organizzativa.
Si possono fare colloqui senza considerare il tempo che passa?
O il controllo del tempo a disposizione è prerogativa della parte che aiuta e che – dando il tempo (il ritmo e la durata) segnala contemporaneamente la sua forza relazionale?
O conviene cercare o consentire un controllo congiunto sul tempo, proprio con l’obiettivo di intraprendere e far evolvere relazioni più equilibrate?
«Se vi fosse nella nostra lingua una forma verbale del concetto di tempo, qualcosa all’incirca come l’espressione “temporalizzare” (analogamente all’inglese ‘timing’), sarebbe facile rendersi conto e comprendere che “l’atto di guardare l’ora” ha lo scopo di armonizzare (di “sincronizzare”) tra loro delle posizioni nel succedersi di due o più serie di avvenimenti. Allora il carattere strumentale del tempo (o “dei tempi”) sarebbe assolutamente evidente».
p. 56
Norbert Elias, Saggio sul tempo, Il Mulino, 1986.
Sull’importanza del tempo che segna i rapporti tra le persona, sulla importanza del tempo paziente e costruttivo di relazionali evolutive ha recentemente richiamato l’attenzione Domenico Barrilà (2012). L’importanza di dare tempo e rallentarlo come segno di cura relazionale e come dimensione essenziale affinché le relazioni si sviluppino è condizione per rapporti non distruttivi.
Già ma il tempo che abbiamo non è inesauribile. La domanda non è solo se regolare il tempo dei colloqui, ma come, affinché non venga percepito come indisponibile, sottraibile unilateralmente, sfuggente, insufficiente.
In apparenza tutto sembra semplice, ma se proviamo a prefigurare i riverberi delle diverse possibilità di regolazione del tempo sulle dimensioni relazionali, possiamo immaginare esiti fausti ma anche aspettarci effetti controproducenti.
È opportuno appendere un orologio da parete nelle stanze colloqui?
Qualcuno ha già affrontato questa questione nella configurazione nei setting di aiuto?
Ci sono differenze fra setting che fanno riferimento ad approcci o a campi disciplinari diversi?
Cambia se siamo in un servizio pubblico o in un servizio privato? In un centro di mediazione famigliare, in un servizio sociale, in un colloquio con le insegnanti a scuola, in una consulenza ad un gruppo?
E il controllo congiunto del tempo può aiutare la fluidità operativa dell’intero servizio di ricevimento?
Scusate le molte domande…
Per completezza aggiungo una rapida (ma non superficiale) ricognizione emersa da un incontro sui modi per segnalare – nel corso di un colloquio – che il tempo è una variabile da considerare:
In che misura gli strumenti e il loro uso determinano colloqui sospinti dall’ansia, colloqui pacati, colloqui urgenti, di corsa, ordinati, limitati, densi… Già in che misura il tempo dice e dà la misura di quello che sta accadendo?
[Quanto devono durare i colloqui, i silenzi, le pause e gli interventi?]
In sostanza, nel corso dell’incontro al quale mi riferivo, abbiamo commentato che escono tre modalità di rapporto con il tempo nei colloqui:
Il tempo contribuisce a strutturare la produttività delle organizzazioni, a regolarne la funzionalità minuta (pensiamo ai vari ‘minutaggi’ negli interventi di cura, ai tempi predeterminati dagli accreditamenti), a scandire le attività giornaliere, le ripetitività settimanali, i risultati mensili, le performance trimestrali, l’intero ciclo dell’anno (con le scadenze che ne marcano gli snodi). Un recente articolo sulla prima pagina dell’inserto Domenica – Il Sole-24 Ore del 30 dicembre 2012 dal titolo “Chi dice che il tempo scorre?” argomenta che ci potrebbero essere concezioni diverse del tempo nelle diverse culture. L’idea che il tempo abbia caratteristiche culturali è plausibile. La domanda che mi gira in testa è se ci sono ricerche che hanno studiato le rappresentazioni temporali vissute nelle organizzazioni [certamente ci saranno, semplicemente non le conosco]. Per parte mia, spesso ho avuto l’impressione che tra gli assunti profondi sui quali poggiano le culture organizzative vi siano concezioni del tempo poco considerate. Gli accordi espliciti o taciti sugli inizi, sulle durate, sui termini, sulla tessitura temporale di quanto si fa dentro le organizzazioni dovrebbero rivelarci qualcosa sull’idea di tempo che le struttura e le fa funzionare.
«[…] gli assetti temporali sono connessi molto strettamente con la formazione di gruppi. Se un ordine temporale è comunemente condiviso da un gruppo di individui, la sua unicità rispetto al gruppo funziona sia come elemento unificante che come fattore di separazione. Da un lato, evidenziando ed accentuando le affinità tra membri del gruppo rispetto ad altri, favorisce il consolidamento di sentimenti di appartenenza (in-group), e costituisce in questo modo una base molto forte per la “solidarietà meccanica” all’interno del gruppo. D’altro lato, chiaramente, contribuisce a stabilire confini tra i gruppi che distinguono e separano i membri di un gruppo dagli outsiders».
p. 111
Eviatar Zerubavel, Ritmi nascosti. Orari e calendari nella vita sociale, Il Mulino, 1985.
Il tempo dedicato, il tempo simbolizzato, il tempo della relazione può influenzare lo svilupparsi (o meno) di rapporti costruttivi, mentre il tempo microsociale che dall’organizzazione viene regolato può favorire o ostacolare la sua capacità di funzionare. Ma come si connettono i tempi soggettivi, professionali, organizzativi? C’è bisogno di attenzione e non basta definire contenitori che separano attività per facilitarne l’integrazione. La somma dei tempi dei colloqui, il loro trabordare, i ritardi che si sommano e fanno slittare gli appuntamenti segnalano come il tempo organizzativo non solo governa i tempi dei diversi interventi, ma ne viene condizionato. Tempo delle attività di cura e tempo delle connessioni fra diverse funzioni organizzative sono fra loro in un rapporto di reciproco condizionamento, a volte casuale e disordinato, a volte regolato, orientato alla ricerca dei risultati più promettenti.
Un piccolo segnale dell’idea che le organizzazioni possono avere del tempo è che a volte neppure in sala d’attesa vi sono orologi alle pareti. Entri nell’organizzazione e il tempo scompare. Uno spazio atemporale ti avvolge. Certo ciascuno conserva il proprio orologio o il proprio telefono cellulare, ma il tempo collettivo dell’organizzazione non è pubblico.
Pensiamo per un attimo alle stazioni dei treni o alle stazioni della metropolitana. Senza volere incontriamo diversi orologi che strutturano il nostro tempo. Che accordi ci sono nelle organizzazioni sul tempo? Provate a guardarvi intorno. Nella biblioteca dove spesso mi capita di studiare per mesi l’orologio è rimasto fermo. Ci sono sale riunioni dove sopra la porta d’ingresso [chissà perché è una scelta così diffusa] viene collocato un orologio a muro. Il tempo domina e sovrasta le diverse attività collettive che si svolgono in quell’ambiente…
L’orologio in fondo è solo un piccolo dispositivo eppure catalizza e scandisce il ritmo dei tempi organizzativi, rende fluide o incalzanti le attività che si svolgono sotto la sua incombenza, consente non solo di seguire il consumarsi della risorsa che viene condivisa, ma anche accordarsi sul suo uso. La regolazione dei tempi può aiutare a regolare il ritmo dell’attività collettiva. Si potrebbe indagare come un certo accordo sui tempi comporta la strutturazione delle funzionalità organizzative…
«Il sistema orario definisce un tempo insieme collettivo e individuale, suscettibile di una meccanizzazione sempre più spinta, ma anche di una sottilissima manipolazione soggettiva».
p. 501
Le Goff J., “Calendario”, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, 1977, pp. 501-534.
Servirebbe un orologio anche in sala d’attesa?
L’ordine socio-temporale è convenzionale, ma non discrezionale. Come nascono gli accordi e le deroghe sul tempo di lavoro? E come il tempo del singolo lavoratore diventa tempo di gruppo e dell’organizzazione? Mi piacerebbe ricevere riscontri in termini di opinioni e di esperienze. Ci potrebbero essere servizi che hanno appeso (o tolto) gli orologi dalla parete dopo essersi interrogate sulla loro collocazione nello spazio…
E sarebbe interessante provare a sperimentare stanze colloquio con l’orologio visibile a tutti gli interlocutori, per cercare di comprendere quali riverberi sui colloqui, per vedere come una microvariabile di contesto diventa una microvariabiabile relazionale e rimbalza sul più complessivo operare del servizio…
Sperimentare per qualche giorno stanze colloquio senza orologio. Provare a tenere un diario su come il tempo organizzativo funziona da quadro di riferimento, da meccanismo regolativo più o meno strutturante: tempo non considerato, tempo coercitivo, tempo unilaterale, tempo concordato….
Assumere che il tempo non costituisca un vincolo o uno strumento di intervento significa in ogni collocarsi in una posizione relazionale e in una rappresentazione organizzativa. Certo il tempo può anche disciplinarci, invadendo il nostro spazio soggettivo (cosa per altro in corso, visto che non c’è schermo che non mostri un orologio, che non c’è cellulare che non assicuri come funzione passiva quella del segnare l’ora). Il tempo è una sofisticata costruzione culturale e sociale e [aggiungo] organizzativa. Vorrei potermi confrontare con persone e organizzazioni interessate, che abbiano le risorse e anche il tempo (sic!) per una qualche sperimentazione sul campo. Per provare a ragionare su come il tempo viene gestito e su come è risorsa nel lavoro d’aiuto.
Attali J., “Il tempo” in Attali J., Bonvicini S., Il senso delle cose, Fazi, 2011 (2009), pp. 87-94.
Barrilà D., I legami che aiutano a vivere. L’energia che cambia la nostra vita e il mondo, Urrà, 2012, in particolare il capitolo 10 dal titolo “Il volto distruttivo delle relazioni accelerate”, pp.149-163.
Elias N., Saggio sul tempo, Il Mulino, 1986 (ed. or. 1984).
Le Goff J., “Calendario”, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, , 1977, pp. 501-534.
Murakami Haruki, “La scimmia di Shinagawa”, ne I salici ciechi e la donna addormentata, Einaudi 2010 (2006), pp. 345-376.
Pomian K., “Tempo/temporalità”, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, , 1981, pp. 24-101.
Rovelli C., “Chi dice che il tempo scorre?” in Domenica – Il Sole-24Ore, 30 dicembre 2012, p1-
Zerubavel E., Ritmi nascosti. Orari e calendari nella vita sociale, Il Mulino, 1985 (ed or. 1981).
http://iosonotremenda.tumblr.com/post/1008728360/perche-finalmente-lo-abbiamo-imparato-che-ce
Le riflessioni sul tempo mi hanno sempre affascinata. Bevo tanto thè e a volte, quando sono a casa, attendo che trascorrano i quattro minuti dell’infusione osservando l’orologio appeso in cucina. Mi sembra incredibile che in quel mio osservare il movimento delle lancette sul quadrante, si rapprenda dell’esistenza trascorsa e che, secondo la nostra concezione lineare del tempo, non è più recuperabile. Inevitabile trovare davvero interessante questa riflessione sul tempo nelle organizzazioni. Sto lavorando con un gruppo di orientatori nell’ambito della formazione professionale per la costruzione di casi di studio per l’acquisizione di competenze specifiche. Il focus group dedicato all’analisi della competenza di sviluppare le proprie capacità e comprendere gli eventuali limiti entro cui si opera, ha fatto emergere, tra gli altri elementi, la gestione del tempo e la necessità/capacità di mantenere un equilibrio sempre precario tra i tempi relazionali e del setting e quelli dell’organizzazione. Se a questo si aggiunge la totale mancanza di regolamentazione dell’attività di orientamento che consente a ogni singolo professionista di stabilire le regole del setting, la riflessione sul rapporto tra tempo e organizzazione diventa cogente.
Ciao Tiziana,
ieri c’erano esami in Unimib.
E ho ripensato al problema del tempo in relazione all’esperienza dell’esame universitario.
Spesso in università ciascuno fa per sé.
Ciò non è un male, e non immagino certo un sistema iper-regolato.
Ma per quanto riguarda gli esami, a volte gli studenti dichiarano che c’è poco tempo, iniziano tardi, e sopratutto il tempo dedicato non è di qualità.
Sono in dubbio nel pensare agli esami come ad un momento di orientamento.
In ogni caso, se anche fossero semplici attività di verifica, lo stesso il tempo per poter capire quanto e come si è appreso (e quanto e come si è studiato) gioca un ruolo non secondario.
Il tempo svolge funzioni di integrazione…
Grazie Prof. per i suoi ottimi spunti su cui riflettere e lavorare.
Come orientatore – ricollocatore, svolgo le attività in ambienti diversi a seconda della sede in cui mi trovo: a volte è un piccolo ufficio, a volte è una grande aula scolastica. Il comune denominatore è un ambiente minimale con un grande scrittoio, alcune sedie e qualche quadro appeso alle pareti. A mio parere lo spazio di lavoro non è ottimale, per migliorarlo, mi piace: disporre le sedie più comode attorno alla scrivania, facendo accomodare il cliente/utente nel lato corto e sedendomi al centro del lato lungo, rimanendo così al suo fianco. Lavoro con una configurazione ravvicinata, ma mantengo la “distanza ottimale” che può variare a seconda del lavoro o del grado di apertura della conversazione. Per creare un clima collaborativo, alterno le attività con argomenti che mi vengono proposti, facciamo delle pause caffè, usiamo i quotidiani o internet.
Secondo me l’ambiente in cui operiamo e molto importante perché può avere ricadute sia positive che negative sulla qualità della relazione e sul lavoro che svolgiamo.
Il fattore tempo è molto importante per me, nell’attività che svolgo ho delle ore prefissate all’interno delle quali, i percorsi di ricollocazione professionale si intrecciano con vicende personali.
Il tempo e le persone mi fanno riflettere su come posso organizzare le attività, trovando il giusto equilibrio tra le attività inerenti il mercato del lavoro e le dinamiche del versante psicologico, in un confine sfumato tra lavoratore in difficoltà, è un essere umano con una vita privata e dei sentimenti. A volte il tempo a mia disposizione è limitato: con alcune persone sono io a comunicare che l’incontro sta per volgere al termine e con altre, non volendo interromperle, lascio che siano loro ad accorgersene (sempre nel limite del possibile). Solitamente sono le persone meno interessate o con un impegno a controllare l’orologio. Questa modalità non sempre è professionalmente corretta, economicamente vantaggiosa, ma ha i suoi benefici; quindi riorganizzo la mia agenda, cercando di non penalizzare nessuno, me compreso. Non voglio che il mio lavoro diventi come una catena di montaggio, non voglio che si svaluti l’umanità che ognuno di noi porta con sé nel proprio posto di lavoro. Poco o tanto, il tempo è comunque una risorsa preziosa da gestire.
Il tempo è fondamentale ad organizzare le attività, come lo è lo spartito per le note musicali.
Concludo con un aforisma: Il miglior modo di solidificare il tempo, di vederlo e di toccarlo con mano è quello di fare molte cose buone. Le azioni virtuose e i nostri lavori ci dimostrano meglio d’ogni altra cosa che noi abbiamo vissuto.(Paolo Mantegazza,Il bene e il male, 1856)
Un punto mi colpisce, il rischio della catena di montaggio.
Anche gli esami all’università spesso sono così.
Su questo particolare forma di colloquio devo lavorare.
Anche a me sembra che sia meglio (se possibile) non mettersi di fronte, ma sui due lati consecutivi del tavolo.
Quanto al tempo, non è facile regolarlo, ma noto che nelle aule universitarie non è presente l’orologio.
aggiungo: nel disegno secondo me di ‘sbagliato’ c’é la scrivania… brutta barriera! ;-))
Grazie Maria Teresa,
i tuoi commenti sono post.
Quanto a questo secondo commento anche mia moglie – che si occupa di mediazione famigliare – conviene con te.
In effetti sull’ambiente, gli arredi, le disposizioni, il setting c’è molto da ragionare.
A prestissimo,
Graziano:-)
Caro Graziano, non riesco ad essere così prolifica nel pensiero e nella capacità di approfondimento che hai tu, provo comunque a dare un piccolo contributo raccontando brevemente quello che faccio io nella mia attività di counseling e coaching. Il tempo é una variabile importantissima, non fosse altro perché NOI siamo (purtroppo, o per fortuna a seconda delle prospettive) esseri con una ‘data di scadenza’ (che tra l’altro possiamo solo supporre, o sperare, ma certo non definire con precisione, a meno di interventi suicidari). Così nel mio studio dove accolgo le persone ho due orologi disposti in modo che sia io che il cliente possiamo vederne uno. Notare che NON metto scrivanie in mezzo (sono una barriera), ma due poltroncine comode UGUALI. Chiedo al cliente dove preferisce sedersi, e io mi accomodo nell’altra. Mi piace poi dedicare qualche minuto ad offrire un caffé o una tisana, mentre rompiamo il ghiaccio con brevi piacevoli convenevoli (il cui tempo dedicato non faccio pagare, ovviamente), e poi partire col lavoro a due. Il tempo da dedicare alla sessione fa parte dell’accordo di coaching (che peraltro faccio firmare all’inizio del percorso), insieme alle linee guida del coaching, alle reciproche responsabilità e attese, alle questioni ‘contrattuali’ e relative alla riservatezza. Accanto al calore della relazione che si instaura, rimane chiaro l’aspetto professionale: il cliente paga per avere un servizio. Il tempo fa parte del setting e ci aiuta a riportare l’attenzione sul focus della sessione, in modo che quando l’incontro termina, il cliente possa portarsi a casa ciò che intendeva portarsi e che abbiamo concordato insieme prima di cominciare la sessione. Riportare l’attenzione sull’obiettivo dell’incontro e cercare di chiudere entro il tempo stabilito facendo il punto su quanto emerso, fa parte della responsabilità del coach. Lo spazio é poco, su questo argomento mi piacerebbe tornare… sai che mi fai venire qualche idea per il mio blog?