Qualche giorno fa, in un gruppo dirigente, mi è capitato di partecipare ad una discussione a proposito delle forme di collaborazione che le persone nelle organizzazioni sviluppano, a partire da loro inclinazioni (o resistenze), da presupposti impliciti, aderendo alla cultura organizzativa (acqua nella quale si nuota, spesso inconsapevolmente).
Ecco una rapida sintesi, che non dà ragione dell’intreccio dei ragionamenti fatti.
Intanto la collaborazione può svilupparsi nell’operatività fra individui (a coppie, o tra più persone), a livello di gruppo, fra gruppi di lavoro, o anche fra organizzazioni. Quale dimensione di collaborazione abbiamo in mente? La collaborazione può dispiegarsi in momenti precisi: nelle fasi ideative, di preparazione di un certo lavoro, nelle fasi realizzative o conclusive (messa a punto, consegna, attivazione…). Nel gruppo si ragionava ad esempio di programmazione software, un buon esempio anche per altre attività, materiali o immateriali: conviene istituire team che si autogestiscono o assegnare sequenze definite di compiti da realizzare?
La collaborazione può anche essere ricercata in momenti ‘meta’: a livello di costruzione di competenze e di apprendimenti, nel confronto fra esperienze. Si può collaborare riflettendo su ciò che si conosce e su come si conosce. Si possono condividere o sviluppare ‘a più mani’ capacità operative da utilizzare poi individualmente. Qualcuno faceva l’esempio degli allenamenti sportivi. Negli sport individuali ci si allena insieme ma si gareggia da soli. Le performance sono il frutto di un impegno, di un lavoro, individuale (anche se, su questo punto, in effetti non tutti erano esattamente d’accordo).
Nelle pratiche collaborative individuali si notano due condizioni che spesso vengono confuse: l’autonomia e la solitudine. Messa così la differenza sembra incontrovertibile (anche se riportando le concrete situazioni, le letture si sono fatte più sfumate). Intanto la solitudine è segnata dalla distanza e dalla inaccessibilità fra colleghi/e, fra figure di autorità e persone che lavorano in ruoli sotto ordinati. L’essere lasciati soli (abbandonati) è la condizione che non nega collaborazione, che non la rende possibile: la solitudine è forse l’esatto opposto della collaborazione (anche se a volte le solitudini consentono il massimo della libertà e soprattutto non creano interferenze o propagazioni di errori, solitudini o sagge sconnessioni?)
Diverso è ragionare di autonomia. L’autonomia presuppone forme (variabili) di contatto e spazi di autodeterminazione (anche preclusi all’inserzione altrui). L’autonomia richiede il confronto (che è già un modo di collaborare), la possibilità di negoziare e ricevere aiuto in frangenti o per attività concordate. Naturalmente vi sono attività che spesso vengono svolte in autonomia perché si considera che la collaborazione a due è dispersiva. Ma l’ipotesi del job-sharing o del lavoro in coppia sembra presentare vantaggi non sempre considerati. Ad esempio nella scrittura di software veniva riportato che il pair-working riduce gli errori, incrementa l’efficienza e la produttività, anche se si possono verificare fenomeni di social loafing (una persona si ritira dall’impegno o si ‘appoggia’ all’altra). Mentre per le unità di collaborazione, a partire dai tre componenti, sembra necessario introdurre forme di coordinamento – anche leggero – interno. Insomma non siamo arrivati a una posizione condivisa: le persone nell’operatività possono collaborare se provano a chiarirsi su cosa, in che modo e con quale soddisfazione, se della collaborazione ne fanno un oggetto di riflessione metodologica. Quindi le routine e le precomprensioni di cosa sia vantaggioso potrebbero venire investigate anche per poter essere ottimizzate (o cambiate).
Discorso analogo e ribaltato per i gruppi di lavoro. La discussione ha rimarcato che spesso nei gruppi di lavoro composti da più di quattro o cinque componenti si manifestano fenomeni di inutile sovrapposizione, forme dispersive di partecipazione (e il termine partecipazione è forse inadatto a descrivere il modo dis-economico di stare insieme). Il punto meriterebbe di essere approfondito, ma quello che mi ha colpito è stata la notazione che ci sono momenti in cui la dispersività è apparente e sarebbe più saggio chiamarla ridondanza. Ci può essere un vantaggio nel progettare a più mani e in più gruppi contemporaneamente, ci può essere un vantaggio nel non iper-razionalizzare lasciando spazio alle derive e alle digressioni apparentemente destrutturate e senza meta… A volte può essere vitale duplicare. A patto che vi sia uno spazio-tempo per rinconsiderare le esperienze, i risultati, le scoperte, gli errori, viceversa – ha osservato una collega – la dispersività è disordine e spreco di energie. La considerazione che è sembrata ovvia (forse) è che una certa sobrabbondanza localizzata in momenti topici: quando si pensa, quando si progetta, quando si riconsiderano risultati, difficoltà, quando si sperimenta, quando si affrontano situazioni nuove e imprevedibili, una sovrabbondanza funzionale può essere percepita (ed effettivamente essere) d’aiuto. Uno dei partecipanti alla discussione ha portato l’esempio della compresenza (peraltro in via di eliminazione) delle insegnanti a scuola, per segnalare come gli affiancamenti apparentemente eccedenti non hanno tanto l’obiettivo di ridurre le fatiche quanto di potenziare gli interventi e di costuirsi come esperienze di condivisione, spazi di azione cooperativa.
L’autonomia e la collaborazione al lavoro non sono condizioni univoche. Occorre ragionarci e mettersi d’accordo, sulla base delle esigenze soggettive ed organizzative, delle possibilità concrete, delle condizioni favorenti. La conclusione è apparsa… ovvia, tanto quanto queste questioni sono poco tematizzate.
Graziano Bonjour,
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Nous apprécions beaucoup les arguments des traités psychosociologie qui sont en discussion même ici en France.
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ciao Ambroise
Monsieur Ambroise Biraghi,
il y a nouveau post à commenter.
Nous vous attendons.
:-)
Grazie Stefano.
Le tecnologie facilitano collaborazioni operative e il tenersi in contatto.
Ma da sole non assicurano forme di collaborazione su piani profondi.
Torno sul tema come ho un attimo:-)
Un caro saluto,
Graziano
La collaborazione, come la partecipazione, può nascere anche in un ambiente “virtuale” attraverso l’uso della rte e dei sistemi 2.0: sia nei sistemi gestionali delle aziende (come la AZ di Thiene) o per la didattica (http://www.wikischool.it). In questi casi mi sembra si debba rivedere tutta la teoria sugli aspetti della collaborazione che hai citato (solitudine, autonomia, ridondanza, dispersività, ma io aggiungerei, vicinanza/lontananza, gestione dell’informazione/gestione del prodotto, etc.). Un ulteriore passaggio si potrebbe avere con lo sviluppo dei sistemi 3.0 (su cui mi hai chiesto di fare un intervento, ci sto lavorando), che potrebbero superare (o per lo meno, attenuare) quella barriera psicologica che ancora persiste far la collaborazione in un ambiente fisico ed in uno virtuale. Fermo restando, ed i fatti di questi anni lo dimostrano, la compementarità e la non totale compenetrazione delle due situazioni non sarà mai (auspicabilmente) eliminata.