Attenzione, questo post può rivelarsi indigesto (siete avvisati/e). La sua struttura dipende dall’essere un materiale preparatorio alla seconda giornata del laboratorio Costruire Partnership Pubblico-Privato-NonProfit, nella quale affronteremo il tema della paziente accumulazione di capitali sociali in vista dell’avvio di partnership di collaborazioni produttive e – se possibile – in grado di durare e di riconfigurarsi. Prima di entrare nel vivo dei ragionamenti è necessaria una premessa. La più parte delle affermazioni sono formulate in senso generale, meriterebbero approfondimenti, riferimenti più estesi, evidenze più salde, ricerche sul campo e analisi documentali. Si tratta di ipotesi in cerca di confronti e di intuizioni dis/conferme. Ma, al di là della profondità argomentativa, la questione rimane le partnership vengono immaginate, progettate, costruite a partire da rappresentazioni spesso tacite e non sottoposte a vaglio e a confronti, e forse anche per questo non evolvono e non raggiungono lo stadio di collaborazioni, non prendono forma di sinergie, finendo per disilludere e affaticare inutilmente che le promuove e chi si lascia coinvolgere.
Questa, in ogni caso, la struttura del post:
Alle considerazioni che propongo fanno da contrappunto due citazioni dal saggio di Laura Pennacchi, Filosofia dei beni comuni. Crisi e primato della sfera pubblica, Donzelli, 2012.
Riparto dall’articolo di Stephen H. Linder (1999) – di cui ho già presentato le riflessioni in questo post – per tracciare uno schema semplificato degli interessi in gioco. Ciò che questo autore non esplicita nelle sue riflessioni è che la sua attenzione e le argomentazioni che ne conseguono vengono riservate al profit e alle sue intenzioni più o meno collaborative.
Ne conseguono otto atteggiamenti di attori profit nella costruzione di partnership che hanno alla base due diverse filosofie: neoliberismo e neoconservatorismo. Nel primo caso la spinta è a restringere il ruolo delle Stato e delle sue articolazioni funzionali territoriali. Dire neoliberismo significa invocare meno tasse, meno spesa, meno regole, meno pubblico. Secondo questo paradigma ragionare in termini di pubblico–privato equivale a contrapporre stato a mercato. Nel paradigma neoconservativo invece è attraverso la difesa della tradizione che prevale la partecipazione sociale comunitaria, con i rischi di svalorizzazione della diversità, di rifiuto e di esclusione di ciò che non appartiene alla tradizione localistica (Pennacchi 2012, p. 116)
Queste le otto intenzionalità con le quali gli attori privati lavorano alla costruzione di partnership, in particolare con il pubblico:
In questi primi tre atteggiamenti, secondo Linder, prevarrebbe un atteggiamento neoliberista. Vi sono poi tre atteggiamenti mossi da mentalità neoconservative:
A questi atteggiamenti che sembrerebbero mirare a dare maggiore spazio all’azione dei singoli contenento l’intervento pubblico, si aggiungono due ulteriori atteggiamenti:
Gradualità di atteggiamenti: dal contenimento delle sfere di intervento pubblico all’erosione del potere di azione, ma in ogni caso un attacco che immagina l’intervento pubblico come inadeguato a dare risposte alle esigenze dei cittadini.
Ciò che non viene contemplato è la possibilità di scambi virtuosi tra attori come quelli descritti nell’esperienza degli accordi di conciliazione alle tessiture Corneliani di Mantova a proposito di collaborazioni fra imprenditori, lavoratori e comunità in termini di scambi reciprocamente vantaggiosi. Ciò che non viene contemplato è la possibilità che il privato operi per promuovere forme di cittadinanza d’impresa e di responsabilità sociale. Nell’analisi di Linder prevale uno scetticismo di fondo (non facilmente scalfibile).
Con la crisi del 2007-2008 – la quale si manifesta subito non come epifenomeno o un incidente di percorso ma come crisi strutturale – deflagra l’intero modello di sviluppo neoliberista, svelando la fragilità delle sue basi materiali e la fallacia dei suoi presupposti teorici: i mercati non sono né razionali né efficienti, i mercati non si autoregolano e, anzi, lasciati a loro stessi, rovinano e trascinano nella loro rovina l’intera vita e dignità umana. Ma che la dottrina dell’intrinseca razionalità ed efficienza del mercato e della sua automatica capacità di regolazione sia tragicamente fallita non vuol dire che il neoliberismo sia stato sconfitto e sia oggi in ritirata. Il neoliberismo risorge, anche se in forme nuove, per esempio non disdegnando di ricorrere macroscopicamente alle risorse pubbliche per salvare le banche e il sistema finanziario internazionale (trasformando così immensi debiti privati in immensi debiti pubblici) ma anche ad altri tipi di intervento pubblico, al punto che oggi si parla di “neoliberismo statalista”.
[…]
Si spiega così il singolare paradosso a cui oggi siamo di fronte: l’intervento pubblico è stato invocato quando si trattava di salvare banche e intermediari finanziari dall’abisso e ora che bisognerebbe sostenere i redditi dei lavoratori, rilanciare la “piena e buona occupazione”, dare vita a un nuovo modello di sviluppo, se ne pretende un drastico ridimensionamento sotto forma di tagli vertiginosi alla spesa pubblica, specie quella sociale (per pensioni, sanità, istruzione, servizi, ecc.), spesso veicolata da regioni e enti locali su cui la scure si abbatte in modo cieco.
136-137, Pennacchi L., Filosofia dei beni comuni. Crisi e primato della sfera pubblica, Donzelli, 2012.
l lavoro di identificazione degli interessi inespressi ma spronanti chi opera sul versante privato che Linder ha condotto, mi ha fatto pensare alla possibilità di estendere l’esame delle rappresentazioni alle motivazioni che possono attivare chi opera nella sfera pubblica e nei mondi del nonprofit.
Laura Pennacchi nel suo saggio argomenta e riafferma l’idea che senza Pubblico anche il Privato vede ridurre le proprie possibilità di sviluppo: è solo dall’equilibrio della regolazione della sfera pubblica che si creano condizioni perché l’azione dei soggetti privati possa operare con il massimo delle opportunità. Tuttavia può valere la pena considerare le intenzioni collaborative pubbliche non siano mosse esclusivamente da intenzioni favorevoli. Osservando atteggiamenti e disposizioni di soggetti pubblici mi pare siano identificabili propensioni allo sviluppo di partnership mosse da intenzioni differenti:
approccio partecipativo, che mira a ricercare occasioni di collaborazione localizzate, di apprendimento da esperienze non conosciute, per costruire politiche innovative e di sviluppo, nuove condizioni di convivenza civile, aggregazioni per promuovere responsabilità comune. Si tratta forse di rappresentazioni utopiche di messa a valore di intelligenze e energie che si liberano e si moltiplicano solo nella collaborazione (anche competitiva), ricercando condizioni che portino vantaggi ai soggetti impegnati e ai contesti nei quali questi sodalizi coevolutivi prendono forma e che rilancino di condizioni socialità, cura dell’ambiente, di sviluppo economico territoriale.
È auspicabile un rinnovato intervento pubblico che coinvolga una molteplicità di attori (tra i quali le banche, le imprese private, le imprese pubbliche, le imprese a partecipazione statale, le imprese cooperative, l’impresa europea, le public utilities) e di valorizzare al massimo una pluralità di sfere e di istituzioni: l’associazionismo, il volontariato, il terzo settore, le reti.
130-131, Pennacchi L., Filosofia dei beni comuni. Crisi e primato della sfera pubblica, Donzelli, 2012.
Anche il NonProfit può agire con intenzioni differenti, non necessariamente prosociali o generative. Volendo iperschematizzare:
Nessuno degli approcci si trova nella forma pura (cinica), semmai in miscele dalle dosi variabili e dagli effetti imprevedibili.
Nella costruzione di partnership gli attori non sempre agiscono in modo intenzionale, non sempre con intenzioni esplicite, non sempre con intenzioni vantaggiose per gli altri partner coinvolti. A volte i soggetti in gioco agiscono in modo inconsapevole (o intermittentemente consapevole) faticando a stare in contatto con i propri condizionamenti, le proprie aspettative, i propri obiettivi. E purtroppo non sempre si incontrano partner che cercano di avere una visione d’insieme, partner in grado di considerare interrelazioni (sull’intreccio di investimenti sui propri progetti e sui progetti altrui Anna Omodei ha sviluppato alcune considerazioni). La difficoltà di cogliere le interconnessioni e le interferenze può ostacolare processi di mediazione e di costruzioni di soluzioni compositive se pure parziali.
E non è detto che sia facile formulare i presupposti che influenzano l’azione dei partner, esplicitarli, trovare modalità costruttive per discuterne (anche informalmente). Succede che le partnership vengano promosse spinte dall’urgenza, dalle scadenze, per non perdere opportunità, sulla scorta di rapporti sopiti e riattivati per l’occasione, sotto la spinta di attori influenti a cui non è facile sottrarsi.
Alla base dei raggruppamenti scavando si possono trovare mix di ragioni, soggettivamente buone (escludiamo intenzionalità nocive), un mix di ragioni utilitaristiche, valoriali, prospettiche, esplorative e conoscitive… Quali assunti alla base della costruzione di partnership? E ci si potrebbe chiedere quali effetti producono le combinazioni fra più ragioni. Ed è proprio questo che si potrebbe cercare di comprendere per non assumere un costrutto complesso come monodimensionale o inconoscibile.
La ricerca delle molteplici ragioni in gioco non mira certo a scoraggiare la costruzione di partnership. L’obiettivo è provare a identificare uno dei fattori che influenzano gli esiti, che contribuiscono a determinare pattern relazionali vocati al successo o all’insuccesso (o a risultati così-così). Le partnership di successo sono giochi in cui gli attori guadagnano più di quello che investono, che scambiano beni che reputano utili, senza provocare danno a sé o alla collettività, ma piuttosto procurando un impatto sociale, ambientale o economico positivo, un surplus di benessere.
La costruzione di partnership a impatto positivo si fonda su attori consapevoli, non è irrilevante infatti considerare gli interessi che spingono ad agire, esplorare aspettative e punti di vista dei soggetti che si affacciano a processi di aggregazione, che manifestano l’intenzione di volere partecipare alla costruzione del capitale sociale che potrà evolvere in network o in partnership. Le domande sono molte, ne proponiamo alcune, altre se ne possono aggiungere per affinare il processo di esplorazione delle rappresentazioni in campo.
Non solo interessi certo, anche competenze, risorse, condizionamenti possono venire sondati: come farlo senza irritare, senza ostacolare avvicinamenti o inibire sul nascere potenziali collaborazioni, come essere accorti, incrementare la propria consapevolezza e acquisire informazioni utili? Intanto non confondendo le nostre percezioni e le nostre attribuzioni di senso con il punto di vista dei soggetti di cui sappiamo poco. E poi, ancora una volta, attraverso progettazioni esplorative, che consentono di sondare affidabilità e sintonie possono rivelarsi utili dispositivi transitori e flessibili.
Progetto Alpcore – Alpi competitive e responsabili, 2014.
Pennacchi L., Filosofia dei beni comuni. Crisi e primato della sfera pubblica, Donzelli, 2012.
Boutinet J.-P., Bréchet J.-P., Logiques de projet, logiques de profit. Convergeces or oppositions?, Éditions de Chronique Sociale, 2014.
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