Questo post ha l’obiettivo di aiutarmi a riordinare le idee sul telelavoro. Infatti sono piuttosto confuso. C’è chi ne esalta i vantaggi (forse perché lo desidera), c’è chi lo aborre (forse perché sente il gusto agrodolce), c’è chi lo descrive come un lavoro-non-lavoro (forse perché immagina che non sia necessario vestirsi, organizzarsi e disciplinarsi), c’è chi ne sottolinea i presupposti per nulla emancipatori e gli effetti indesiderabili (ritmi serrati in alienante solitudine). Dibattito, scetticismo e celebrazioni si incalzano vicendevolmente…
Tra novembre 1996 e luglio 1997, per otto mesi, ho partecipato ad un progetto sperimentale di formazione a distanza: tre settimane a casa in telelavoro (connesso con i mezzi tecnologici di allora) e una settimana in un centro di formazione. Ottanta corsisti divisi in quattro gruppi da venti, e uno staff di otto persone: un coordinatore generale, una coordinatrice per gli aspetti logistici e amministrativi, due tecnici, quattro tutor (ero uno dei quattro), una decina di docenti che si alternavano nelle settimane in presenza.
Se ripenso all’esperienza di quasi vent’anni fa, la ricordo come entusiasmante e faticosa. Tre settimane di lavoro in solitudine e una settimana di superlavoro. Non accetterei più un lavoro che mi schiaccia a casa per tre settimane consecutive. Eppure ho continuato a integrare nella mia attività professionale porzioni variabili di telelavoro.
Retrospettivamente… funzionava il progetto, aveva un senso, e funzionava il gruppo di lavoro, ottimo il supporto da parte delle figure di coordinamento, ottimo (con tecnologie oggi insostenibili) il supporto tecnico. Tre settimane di lavoro da casa erano faticose, venivano spezzate da incontri di staff, ma non tornerei indietro. Eppure, nonostante il ‘trauma’, non sono contrario in assoluto al telelavoro e in chiusura del post, provo a dire perché.
‘Telelavoro’ è un termine esplorabile. Con esso si possono intendere cose abbastanza simili, ma anche diverse. Telelavoro può significare lavorare con strumentazioni tecnologiche in un luogo che non sia la sede di lavoro abituale. Telelavoro può significare che si lavora da casa, o da altro luogo. Si dovrebbe allora con maggiore precisione parlare di telelavoro domestico o di telelavoro fuori sede.
Sarà banale, ma il telelavoro non funziona con tutti i lavori (e non funziona per tutte le persone allo stesso modo). Il telelavoro viene spesso presentato come misura di conciliazione, in particolare per le donne (e questa connotazione di genere suscita dibattito). Intanto molte/i sono irritati dall’idea che volendo ragionare di conciliazione la misura debba avere come destinatarie le donne. Vi sono poi posizioni contrastanti sul telelavoro svolto dalle donne perché ritenuto una soluzione che non alleggerisce il carico di lavori chiesti alle donne, ma semmai li aggrava.
Il telelavoro è funzionale, non certo per le donne, ma per un sistema che sceglie la via più facile per ai bisogni delle lavoratrici in assenza di un welfare sociale e familiare. Ancora una volta le lavoratrici con questa forma di lavoro, sperimentano i molteplici ruoli culturalmente assegnati, con un rischio in più: la sovrapposizione del lavoro professionale, domestico e di cura familiare, tutto ben confezionato nella sfera privata.
Eppure ci sono momenti dove il poter rimanere a casa (penso indifferentemente a uomini o donne) per alcuni giorni, per una settimana senza perdere giornate di lavoro può essere di grande aiuto… Come vedete in questo caso stiamo ragionando di telelavoro come misura di sollievo e non come forma principale di produzione. Il telelavoro quindi può assumere significati diversi in relazione alle intenzioni aziendali e alle condizioni soggettive di chi si trova a doverne/poterne fare esperienza… E se chi lavora in ufficio avesse un pacchetto di giornate di lavoro ‘lavorabili’ con la formula del telelavoro?
Telelavoro solo per alcuni lavori? Un’altra questione è che il telelavoro è applicabile solo per una certa tipologia di lavoratrici/tori. In generale il telelavoro è realizzabile per le attività d’ufficio. Scrivere ad esempio richiede concentrazione, altre attività, come le attività di coordinamento tendono a richiedere presenza e disponibilità. In generale il telelavoro è possibile per molti, ma non per tutte le attività.
Attingendo dal dibattito che si è sviluppato in Twitter all’hastag #telelavoro mi pare di poter riassumere i seguenti vantaggi:
Il telelavoro sarebbe una forma di flessibilità che incoraggia l’impegno individuale, alimentato – secondo i sostenitori – dalla maggiore fiducia dell’azienda (o dal controllo che essa può operare sullo svolgimento dei compiti affidati).
Francesca Lemmi segnala la minore conflittualità determinata da convivenze meno intense determina condizioni di maggior benessere La tranquillità poi e la riduzione delle distrazioni presenti negli ambienti di lavoro sono fra le ragioni a favore spesso addotte per sostenere i pregi del telelavoro domestico. Inoltre diffuso su larga scala il telelavoro potrebbe comportate un contenimento del traffico e dell’inquinamento dovuto al pendolarismo.
Vediamo in contro, che non mancano:
Il telelavoro potrebbe costituire un ostacolo allo sviluppo professionale. Con il telelavoro si riducono le possibilità di scambio professionale, le occasioni di confronto, di collaborazione che alimentano apprendimenti esperienziali. Il telelavoro (o l’eccesso di telelavoro) non consentirebbe un percorso di crescita e arricchimento delle competenze e delle sensibilità professionali. L’obiezione è fondata in senso generale, in particolare per quei lavori che richiedono costanti interazioni. Anche, a ben vedere, non tutti i lavori prevedono incredibili sviluppi di carriera, e non tutte le persone ne sono egualmente interessate, e inoltre le tecnologie attuali (integrate con momenti di lavoro in presenza) non ostacolano l’interazione e lo scambio di saperi e di esperienze).
Non sempre gli altri (colleghi/e o famigliari) colgono che il telelavoro è lavoro. A casa succede che se stai telelavorando perché la tua bambina ha la febbre e non è andata a scuola, mentre tu cerchi di lavorare, lei ti chiede attenzioni. E se anche dopo il sonnellino riesci a piazzarla davanti alla tele, il tuo lavoro è condizionato dalla sua presenza.
Laura Papetti rileva che il telelavoro consente più indipendenza nella gestione dei tempi, ma può risultare dispersivo se mancano limiti che a casa propria non sono facilissimi da adottare, così come non è facile assicurare il rispetto delle pianificazioni (questa obiezione potrebbe però validamente essere rivolta anche al lavoro in ufficio). Mentre nei luoghi di lavoro gli spazi e i tempi sono contenitori socialmente definiti per svolgere le attività richieste, a casa è decisamente più difficile mantenere i confini tra attività familiari e compiti lavorativi.
Il telelavoro richiede una certa disciplina che normalmente negli ambienti di lavoro viene indotta anche dal controllo sociale reciproco, mentre quando si lavora da soli è necessario introdurre accorgimenti e rituali sia per evitare distrazioni e assicurare una performance discreta, sia per limitare la pervasività del lavoro.
Il telelavoro può determinare condizioni di solitudine (Francesca Sanza parla di rischio di alienazione professionale) con effetti sulla sfera psicologica (i/le colleghi/e sono lontani, invisibili), e sulla sfera operativa non è così agevole potersi confrontare, chiedere aiuto, sviluppare confronti. È plausibile immaginare che non solo il telelavoro sia diversamente praticabile in relazione alle attività lavorative, ma che la sua apprezzabilità dipenda anche dalle caratteristiche personali e dalle aspettative rispetto al senso e alle condizioni di lavoro per le persone interessate.
Le aziende non trascurano di chiedersi se con il telelavoro cresca la produttività e diminuiscono i costi, se l’organizzazione funzioni meglio, quali siano i vantaggi tangibili per la produttività e per le persone, e se vi siano sono effetti collaterali non immediatamente visibili.
Il telelavoro potrebbe richiedere trasformazioni più o meno attuabili nei modelli organizzativi e produttivi: il fatto che persone siano assenti dall’ufficio comporta un certo lavoro di regia e di collegamento, che in genere avviene in modo fluido se le persone (per la maggior parte) condividono un medesimo spazio-tempo o almeno assicurano una raggiugibilità sincrona. Certo – in linea assolutamente teorica – se una porzione di personale lavorasse da casa e se gli ambienti fossero strutturato in modo da consentire la turnazione nelle postazioni, gli spazi necessari diminuirebbero in modo consistente, e così i costi relativi alle strutture che ospitano gli uffici. Cambiamenti prefigurati e invocati cercando di descrivere le aziende del futuro. E rispetto a questi cambiamenti ci si può chiedere se cambiare il modo di partecipare alle attività lavorative, trasforma il modo di pensarsi e di sentirsi al lavoro.
Qualche settimana fa Jan Surowiecki su Internazionale (994/ 05 aprile 2013) ha sviluppato una serie di considerazioni volte a comprendere quali svantaggi il telelavoro determinerebbe per le aziende. In particolare sconnettere le relazioni sociali che alimentano collaborazioni professionali, allentare lo scambio continuo di competenze, scardinare comunità di pratiche e di apprendimento che rendono possibili interazioni creative, potrebbe essere una delle preoccupazioni che spingono a non favorire l’introduzione del telelavoro. Naturalmente a questi timori si potrebbe obiettare che vi sono lavori più ripetitivi e meno sensibili a cicli di apprendimento accelerati, che come tali – se svolti in remoto – non costituirebbero uno svantaggio per la qualità produttiva.
Il telelavoro è uno dei segnali che indicano come la società stia cambiando e come i contesti produttivi perdano la caratteristica (e il valore) di essere di socializzazione? Sta cambiando lo spazio/tempo del lavoro post-industriale?
Per cercare di comprendere le trasformazioni del lavoro oggi è forse più opportuno considerarle come l’inizio di una forma di vita e di società che come la manifestazioni di una crisi dei modelli precedenti. Non sembra, infatti, sufficiente considerare l’evoluzione attuale del lavoro, della sua regolamentazione e della sua organizzazione come l’espressione di una crisi della forma di produzione industriale. Quella forma aveva il suo idealtipo nel portare le persone in un luogo perché svolgessero compiti, per realizzare opere con tempi e metodi organizzati. Il movimento attuale sembra prevalentemente centrifugo e tende a consegnare ai singoli la creazione delle condizioni per accedere al lavoro, per svolgerlo e per riconoscere il valore, il senso e il significato. […] Le stesse forme di regolamentazione, mentre rispondono ad una domanda di differenziazione e incremento delle opportunità di scelta, corrono il rischio di legittimare processi di frammentazione e molecolarizzazione dell’esperienza e del rapporto tra individui e lavoro.
p. 27-28
Morelli U., Incertezza e organizzazione. Scienze cognitive e crisi della retorica manageriale, Cortina, 2009.
Le riflessioni di Ugo Morelli (2009) mettono in luce una generale crisi dell’organizzazione tradizionale del lavoro che investe le dimensioni dello spazio e del tempo: sequenze di attività lavorative vengono esternalizzate e con esse le persone che ne sono responsabili, si trasformano le relazioni e le esperienze lavorative e il lavoro sembra perdere il valore sociale per diventare esecuzione funzionale. Il decentramento e la parcellizzazione delle forme di produzione metterebbero così in discussione il valore sociale e socializzante del lavoro. Claudio Rorato invece dà conto di una recente ricerca del Politecnico di Milano che presenta dati che porterebbero a ritenere il telelavoro una scelta vantaggiosa per le aziende, per i lavoratori e per le comunità. Si tratta di una lettura opposta a quella proposta da Ugo Morelli, che tende a sottolineare come le trasformazioni organizzative e tecnologiche delle forme di produzione consentano di valorizzare l’autonomia dei soggetti e le loro competenze professionali. Probabilmente nella fase attuale (ed è forse questa la frammentazione del lavoro che Morelli richiama come rischio) coesistono diverse forme di lavoro e diverse rappresentazioni e aspettative rispetto al senso e al valore del lavoro sul piano soggettivo e sociale. In questa prospettiva il telelavoro rende evidenti modelli di riferimento, disposizioni soggettive, posizioni differenti.
Non tutti i cambiamenti sono desiderabili e non sono sempre prefigurabili. Per continuare a ragionare di telelavoro ci aiuterebbero dati d’insieme aggiornati e una comparazione fra esperienze sulle quali riflettere. Sono alla ricerca di dati affidabili su quante aziende consentano o promuovano il telelavoro. E quanti dipendenti o collaboratori (uomini e donne) lo pratichino. Inoltre sarebbe utile comprendere secondo quale prospettiva viene considerato il telelavoro; una forma di welfare o una risorsa per incrementare la produttività? Ancora, mi chiedo, quanto sia diffuso nelle organizzazioni pubbliche, se rientri tra le misure di conciliazione, se rientri tra le trasformazioni dei processi di lavoro, se sia una opportunità o se venga considerato con scetticismo.
Non rifarei più un’esperienza come quella accennata in apertura, nonostante il gruppo di lavoro fosse composto da gente in gamba, preparata, e nonostante la rilevanza dell’esperienza (innovativa e avventurosa). Certo oggi la tecnologia ci supporterebbe con altri strumenti, altra velocità connettiva, altre possibilità di favorire interazioni collaborative. Eppure il telelavoro da casa non mi è per nulla congeniale. Mi è invece congeniale (nei limiti) poter organizzare il mio lavoro e individuare il luogo dove svolgerlo. Ma ciò credo dipenda dal lavoro che svolgo: il consulente. A volte (e può sembrare in controtendenza) il posto migliore dove fare telelavoro è proprio dal cliente, non solo con l’obiettivo di offrire supporto, ma anche per rendere visibili alcuni lavori che viceversa non verrebbero colti e quindi non valorizzati. Penso al telelavoro come a una risorsa alla quale accedere quando serve, per porzioni di attività specifiche. Il telelavoro è una opportunità. Se diventa una costrizione priva di senso rispetto alle attività da svolgere, un obbligo per cui neppure risparmiare il tempo, i costi, il traffico e l’inquinamento del viaggio è un vantaggio, se sconnette dalle relazioni, se non consente quel grado di autoderminazione che rende apprezzabile lavorare, allora alla fatica si aggiunge fatica. La flessibilità nell’organizzare i compiti lavorativi è tollerabile non solo se produce vantaggi individuali ma se concorre a rendere il lavoro una fatica sensata.
Di telelavoro si può ragionare in termini di tutto o niente, ma forse dicotomizzare non aiuta. Di telelavoro si può ragionare in termini di opportunità, possibilità, vantaggi, rischi, condizioni lavorative e condizioni personali. Mi rendo conto rileggendo il post che avrei necessità di valutare qualche ricerca specifica, di approfondire la questione, e che queste righe possono al più essere un promemoria per una avviare la discussione e cominciare a pensare ad un studio specifico.
Volendo provocare, me la caverei così:
#telelavoro per seguire il flusso dei contributi su Twitter
Fried J., Hainemaeier Hansson D., Rework. Manifesto del nuovo imprenditore minimalista, Etas, 2010.
Bloom N., Liang J., Roberts J., Ying Z. J., “ Does working from home work? Evidence from a chinese experiment” http://www.stanford.edu/~nbloom/WFH.pdf, July 2012.
Lemmi F., “Telelavoro: la soluzione per conciliare famiglia e lavoro?”, Dol’s magazine, 12 marzo 2013.
Morelli U., “Organizzazione in pezzi. Vincoli e possibilità della flessibilità”, in Incertezza e organizzazione. Scienze cognitive e crisi della retorica manageriale, Cortina, 2009.
Rorato C., “Telelavoro leva di competitività”, Corriere delle comunicazioni, 10 maggio 2013.
Sanza F. “Il telelavoro non è per tutti”, in Ufficio in casa, 15 aprile 2013.
Surowiecki J., “Il lavoro ha bisogno di chiacchiere”, Internazionale 994, 05 aprile 2013, p. 32.
Riporto una citazione che condivido. So che i fenomeni sociali hanno una loro intrinseca complessità e che soprattutto mutano continuamente, e che quindi non è opportuno esprimere considerazioni ultimative, men che meno sui contesti di lavoro così variabili e soggettivi. Tuttavia i pensieri di Fried e Hansson (2010) – al di là dell’indicare una situazione ideale – mi sembra reintroducano la questione della cura che ambienti e gruppi di lavoro richiedono per poter essere ad un tempo produttivi e vivibili.
L’ambiente può favorire un lavoro di qualità molto più di quanto in genere non si ritenga.
[…]
Gli ambienti favorevoli alla performance nascono da un clima di fiducia, di autonomia e di responsabilità. Si ottengono mettendo a disposizione dei collaboratori la privacy, lo spazio lavorativo e gli strumenti che si meritano. Le aziende eccellenti mostrano rispetto per le persone che ci lavorano e per il modo in cui lo fanno.
p. 210
Fried J., Hainemaeier Hansson D., Rework. Manifesto del nuovo imprenditore minimalista, Etas, 2010.
L’ha ribloggato su Conciliazione pluralee ha commentato:
Pro e contro del telelavoro. Il punto di vista di Graziano Maino