Conosciamo la sindrome Nimby: Not in my backyard. Nostranamente parlando ‘non nel mio giardino’.
Bene, gli psicologi sociali ancora non lo sanno, ma c’è una nuova sindrome. Più subdola e meno diagnosticabile: Ioby, In others backyard. ‘Nell’altrui giardino’, questa la traduzione, alla buona.
Quali le differenze? Be’, radicali!
Nel primo caso prevale il ‘no’. No alla centrale nucleare nel mio giardino. No alla discarica nel mio giardino. No all’inceneritore nel mio giardino. No alla sopraelevata nel mio giardino. No alla pedemontana nel mio giardino. Insomma no. No ad una serie di cose che, in effetti, non sembrano così desiderabili. No da me, no dal mio vicino, no nel giardino di mio cugino… insomma ho detto (abbiamo detto) no! L’idea non ci piace, né vicino, né lontano. Meglio, molto meglio di no.
Potremmo dunque parlare di un no unificante, esclusivo ed intensivo.
Con la sindrome Ioby le cose cambiano. Entriamo nel campo delle possibilità. Non quelle teoriche. Quelle concrete. “Sì, ma nel giardino d’altri”. Cioè, se il centro commerciale, la cava, la provinciale, il ponte, la centrale termica, l’impianto di compostaggio, il depuratore… riuscissimo a farli cinquecento metri più a valle, due chilometri a ovest, appena oltre il fiume, dietro la collina, nella valle adiacente… allora, beh, se ne può parlare. Sarebbe un no, cioé un ni, meglio: siamo tutti d’accordo per il sì. Un sì non qui, ma un sì più in là.
Abbiamo a questo punto un sì propositivo, risolutivo, progressivo, prudente, ma promettente, evolvente, inclusivo (se po fa’) ed estensivo (pure).
Anzi un sì che siamo tutti d’accordo. Sì, ma da te, a casa tua… da loro (così gli diamo anche una mano).
E basta dire di no!
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