Le cose cambiano
Anche il bilancio sociale si trasforma. In più modi. Sotto la spinta di pressioni carsiche (l’uso e le riflessioni sull’uso) e inaspettate (come la tecnologia). Il bilancio sociale ha forse esaurito la sua carica millenaristica (lo abbiamo già rilevato altre volte). Ma ciò non significa che abbia perso il suo valore e la sua utilità. Forse sarebbe meglio dire che, se anche il bilancio sociale passasse di moda, l’esigenza di pratiche rendicontative non verrebbe meno. Muterebbero le forme, le enfasi, le occasioni e i supporti, ma la domanda di comprensione dell’azione svolta per conto di altri, a loro vantaggio, o l’esigenza di considerare gli effetti e comprendere esiti ed esternalità delle nostre azioni rimarrebbe. La domanda verrebbe di nuovo posta.
Forse quello che accade di osservare è che, nel campo della rendicontazione sociale, dopo anni di promozioni, promesse, impegni, dopo anni di attese di avere raccolti eccezionali si sono forse stemperate le aspettative più idealizzanti, per lasciare posto – sperabilmente – alle concrete utilità che le organizzazioni possono progettare e mettere a punto quando si apprestano a lavorare a rendiconti sociali.
Le pratiche di rendicontazione cambiano
La rendicontazione appare meno statica, più fluida. O almeno questa è la domanda a gradi di consapevolezza variabile che viene formulata dalle organizzazioni (e le domande creano le risposte). Mentre si istituzionalizza (linee guida emanate da organismi privati e pubblici) il bilancio sociale contemporaneamente si trasforma: non si chiede più all’organizzazione di certificare l’attenzione per alcune dimensioni sociali, ma il campo informativo si estende: risultati economici, sociali, organizzativi, ambientali, di partecipazione, innovazione, responsabilità… Le domande sono potenzialmente infinite.
E cambia la tecnologia, sia fa più duttile e accessibile. Con il web 2.0 è facile aprire un blog, gestire un sito. Sembra facile addomesticare la comunicazione virtuale e porla al servizio dei processi rendicontativi, variandone e amplificandone la portata e gli effetti. A tratti poi si ha quasi l’impressione che il dare conto voglia prevalere sul rendere conto. Il dare conto risponde a un impulso, a un calcolo autonomo, intenzionale, e porta con sé l’esigenza di visibilizzare le esperienze, le innovazioni, i traguardi. Dare conto è (anche) promuoversi. Ma dare conto può anche rispondere all’esigenza di mostrare (e cercare di condividere) con quali problemi si ha a che fare e come li si affronta, quali scelte si intraprendono, a quali priorità si rivolgono le energie. Dare conto significa esplicitare quali questioni ci interpellano e come ci si mette in relazione con esse.
Al tempo stesso cresce l’esigenza di condividere apprendimenti e conoscenze che le organizzazioni vanno sviluppando con le loro pratiche. Si ha la sensazione che nell’abbondanza dei saperi e delle teorie qualcosa (di importante) sfugga. Come se la rendicontazione non cogliesse la domanda di riorganizzare le esperienze che via via maturano, e non riuscisse a restituirle a chi nell’organizzazione lavora e alle reti di interlocutori con le quali si collabora. È come se i processi del render conto, che certamente devono presentare ‘i conti’, i dati e le informazioni rilevanti corressero il serio rischio di restare sulla superficie dei fenomeni e non aiutassero a comprendere, ad approfondire, a discutere. I dati sono certamente importanti, ma la loro costruzione richiede energie, tempo, competenze e prefigurazioni. A volte si impongono i format già definiti.
Ricapitolando
Ciao Graziano,
finalmente intervengo, per segnalarti questo link
http://polser.wordpress.com/2009/10/15/un-blog-%e2%80%9cprovvisorio%e2%80%9d-come-strumento-di-comunicazione-in-gruppi-di-lavoro-scheda-operativa-di-paolo-ferrario-29-settembre-2009/
Effettivamente le cose si stanno muovendo, le pratiche di lavoro e comunicazione cambiano e offrono nuove possibilità. Il bello è che siamo ancora in una fase di sperimentazione e pionerismo!
A presto,
Paolo
Grazie Paolo,
per essere intervenuto e per la segnalazione.
In effetti anche i temi della temporaneità e dell’estemporaneità andrebbero considerati.
A volte i bilanci sociali, giusto per restare nel campo, sembrano temporary shop. Si aprono e si chiudono.Propongono i loro contenuti e scompaiono dalla scena.
Potrebbe essere un bene.
Ma si potrebbe anche immaginarli come corner shop che segnano la vita di un quartiere.
A presto, a venerdì?
Graziano
Leggendo questo post mi viene da collegare con il mio servizio alla Caritas e con alcune domande che anch’io
mi porto dentro nel momento del rendiconto o del bilancio semestrale che presento alle persone che fanno
parte dell’equipe di lavoro e alla stessa Diocesi compreso il Vescovo.
Altre organizzazioni sociali similari fanno questo tipo di lavoro che possiamo chiamare “bilancio sociale” e credo che oltre le competenze (importanti ma non esaustive) c’è proprio bisogno di riflettere e capire
COME DARE CONTO in modo tale che si possano realizzare
meglio gli obiettivi che ci prefiggiamo.