Mistake = ORIGIN late Middle English (as a verb): from Old Norse mistaka ‘take in error’, probably influenced in sense by Old French mesprendre. [“misprendere”, cioè afferrare, comprendere male?]
Gli errori sono un argomento scabroso. Bisogna stare saldi: non appena si annuncia il tema (si pronuncia la parola), drappelli di errori in agguato, pronti ad assalirti, si palesano.
L’etimologia indica il brancolare, scivolare. Qualcosa va storto. Uno sbaglio. C’è stato un errore – si dice – quando le cose sono andate diversamente da come ci si aspettava (diversamente in senso negativo).
E a proposito di errori, si possono notare (almeno) quattro aspetti:
Già, si potrebbe parlare di fenomenologia dell’errore.
Qualcuno sostiene che dagli errori non si impara perché non ci dicono cosa dovremmo fare. Non sono d’accordo (anche se c’è uno spunto in questa osservazione). Dal mio punto di vista gli errori sono potenti occasioni di apprendere. Possono essere fonte di ispirazione (se non ci soverchiano). Esiti inattesi (e indesiderati), ci possono aiutare ad introdurre innovazioni, in risposta ai problemi o per cambiare le condizioni in cui ci troviamo. Gli errori possono essere produttivi: stimolando la ricerca e gettando le basi per comprensioni più profonde e consentire di (ri)considerare il nostro modo di vedere, gli schemi conoscitivi di cui facciamo uso. Gli errori possono aprire a comprensioni, essere occasioni di apprendimenti, opportunità per innovare.
Le persone nelle organizzazioni commettono errori, ma sarebbe una semplificazione immaginare che dipendano banalmente da comportamenti individuali negligenti. Gli errori, secondo Maurizio Catino (2009, p. 119), sono socialmente organizzati e sistematicamente prodotti. I sistemi qualità, i sistemi di sicurezza, gli approcci di contrasto dei rischi, che puntano al il miglioramento organizzativo tengono in gran conto le non conformità (errori).
Naturalmente il problema a monte è quello di etichettare un accadimento come errore. Dire che qualcosa è un ‘errore’ significa non chiudere la questione e affermare che ci si deve ragionare (in questo le organizzazioni si comportano spesso in modo superficiale e ambivalente. Non tutte, si intende, ma non poche).
Per cavare spunti dagli errori propri e altrui è necessario considerarli attentamente.
Catino M., Miopia organizzativa. Problemi di razionalità e previsione nelle organizzazioni, Il Mulino, 2009.
Gawande A., “Riconoscere i propri errori”, in Con cura. Diario di un medico deciso a fare meglio, Einaudi, 2008 (2007), pp. 78-104.
Kaiser D., Creager A.N.H., “Il modo giusto di sbagliare”, Le Scienze, 528, agosto 2012, pp. 86-91.
La Cecla F., Il malinteso. Antropologia dell’incontro, Laterza, 2009.
Miller G. A., “The Magical Number Seven, Plus or Minus Two: Some Limits on Our Capacity for Processing Information” The Psychological Review, vol. 63, 1956, pp. 81-97.
Rodari G., Come è nato il libro dei errori, in Noi Donne, 45 del 04 novembre 1964.
Weich K. E., Sutcliffe K. M., Governare l’inatteso. Organizzazioni capaci di affrontare le crisi con successo, Cortina, 2010 (2007).
A volte gli errori fanno ridere, sono laspus (delle scivolate, appunto).
Secondo Weick e Sutcliffe (2010), le giornate migliori sono quelle in cui tutto va storto (una citazione lenitiva, l’ultima spiaggia, quando qualcosa, specie in modo cumulativo, si presenta in forma di errore). Qui la citazione per esteso:
In modo abbastanza paradossale, ciò è quanto produce una cattiva giornata in cui le cose vanno per il verso sbagliato. Una cattiva giornata rivela nuovi dettagli, stimola risposte mai sperimentate in precedenza, e fornisce una discreta lezione riguardo all’importanza della perseveranza. Tutti questi risultati ampliano le competenze. Quando gli individui ampliano le loro competenze rispetto all’azione, sono in grado di scorgere di più i rischi perché, qualunque cosa osservino, ora sono in grado di maneggiarla.
p. 158
Detto altrimenti, l’errore incrementa la varianza nelle informazioni di cui disponiamo, da un lato soprendendoci (alle spalle) e costringendoci a riconsiderare ciò che accade e ciò che pensiamo di sapere, e dall’altro introducendo nuove informazioni, o almeno nuovi segnali che da qualche parte ci sono informazioni che non abbiamo considerato.
Provo a dirla con le parole di George A. Miller (1956):
The similarity of variance and amount of information might be explained this way: When we have a large variance, we are very ignorant about what is going to happen. If we are very ignorant, then when we make the observation it gives us a lot of information. On the other hand, if the variance is very small, we know in advance how our observation must come out, so we get little information from making the observation.
p. 82
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