Per introdurre alcuni elementi che mi sembra caratterizzino la prospettiva psicosociologica mi servo di un brano estrapolabile dal libro di Antonio Pascale e Luca Rastello, Democrazia: cosa può fare uno scrittore, Codice edizioni, 2011.
Dal contributo “Post scriptum: per finire, un’autocritica” di Antonio Pascale attingo una citazione contenuta nel paragrafo finale Opinioni (democratiche)?.
Mi piace l’idea che il brano di commiato di un libro possa essere usato per aprire qualcosa di nuovo.
Ecco il brano:
«[…] dal 25 aprile fino al primo maggio 2008 sono stato ospite del presidio sanitario di Medici Senza Frontiere, a Rio de Janeiro. Il punto di primo soccorso era situato nel mezzo del complesso di Alemao, la più grande favela di Rio., in mano (ossia di proprietà dei) narcotrafficanti. È una zona blindata. Il mio compito era quello di descrivere le condizioni di vita dei cittadini della favela. Ho elaborato quindi un ragionamento: la favela è solo un fortino, all’interno del quale si commercia in droga. Siccome sono in tanti fuori dalla favela a usare droga, se il fortino è sporco, violento, malsano e brutto è solo affinché la merce arrivi pulita sulle tavole dei consumatori.
A un certo punto nella narrazione ho usato, per meglio sottolineare il clima cupo della favela, la seguente immagine: un palo della luce con un cavo singolo, sul quale si attaccavano decine e decine di fili illegali. La visione d’insieme vista dal basso mostrava un reticolato nero, quasi una ragnatela, per cui concludevo: “Ogni gesto d’astrazione creativa come quello tipico di guardare il cielo era sporcato da questa ragnatela. Qualcosa di sporco segnerà per sempre il processo creativo”.
Durante le letture e le presentazioni ho notato che questa immagine poetica risultava molto gradita al pubblico. Naturalmente me ne sono vantato. E naturalmente quella immagine forte e poetica in qualche modo ha immobilizzato il racconto e la favela la favela è precipitata, anche se poeticamente, nell’immaginario tipico: povertà, disperazione, narcotraffico e impossibilità di trovare una via di fuga, in quanto anche il cielo, elemento di libertà creativa, è sporcato.
Finché un giorno ho assistito a una conferenza in cui si parlava dei problemi del Terzo mondo. Il relatore, un antropologo americano, ha mostrato in una slide la stessa immagine che io avevo descritto: un cavo elettrico sul quale si attaccano decine e decine di cavi. Con mia sorpresa, il relatore non ha insistito troppo su questa immagine ma ha, invece, descritto il percorso dei fili. Dove andava a finire? L’immagine successiva si apriva sulla cucina di una casa; seduta al tavolo una bambina, che lavorava tutto il giorno e studiava fino a notte fonda grazie a quella luce. Il problema era allora come sfruttare quella luce abusiva trasformare un atto illegale in una possibilità legale.
Mi ha molto colpito questa descrizione: io non ci avevo pensato. Era un cavo abusivo, è vero, ma forniva elettricità anche a individui che stavano lottando per non rassegnarsi alle statistiche, le stesse che magari li vedevano come futuri soldati al soldo dei narcotrafficanti. Nella descrizione fredda dell’antropologo la mia immagine, ovvero il processo creativo sporcato dalla ragnatela dei fili, non reggeva alla prova dei fatti. Era statica, non dinamica.
Quanto tempo avevo impiegato a elaborare quella metafora? Forse due minuti e un po’ meno per scriverla. Risultato: un’immagine che paralizzava la narrazione in nome della sua forza poetica, un po’ come Protagora produceva con le sue belle parole le allucinazioni sonore in Socrate. L’antropologo invece non si è fermato lì a far poesia, ha seguito i fili casa per casa e ne ha illustrato l’effetto sulle singole persone. La sua descrizione ha aperto percorsi e possibilità che la mia bella e comoda e facile pigrizia poetica aveva eliminato.
Il mondo è vario e poetico di per sé; troppa poesia, e usata male, spegne la biodiversità, mentre al contrario la curiosità e l’inquietudine l’accendono. L’integrazione tra i saperi è l’unica soluzione per esaminare metodicamente quello che accade; l’intellettuale è tale se partecipa a questo processo. Ma quando si vanta, e si sforza di produrre immagini risolutive, fallisce e dà corpo e sostanza a belle allucinazioni, sonore o visive che siano.»
Questi i punti che provo ad argomentare brevemente, anche a partire dalle mie esperienze di consulente a proposito della prospettiva psicosociologica:
“Alors que la théorie, par son constraste avec le faits, tend a devenir une mythologie…
Michel de Certeau, L’étranger ou l’union dans la différence, Editions du Seuil, 2005 (1969), p. 27.
L’approccio psicosociologico offre indicazioni fondate su teorie, ricerche, esperienze per intervenire nei sistemi sociali e sollecita la costruzione di quadri interpretativi a partire dalle esperienze operative sul campo. Apre a prestiti interdisciplinari teorici e pratici, con un approccio critico e propositivo. Le teorie sono strumenti per leggere e intervenire nella realtà, in settori e ambiti diversi, con l’obiettivo di essere di aiuto.
La comprensione dei fenomeni sociali può essere raggiunta attraverso un’analisi che colga la connessione profonda tra processi sociali e processi individuali”
Déloye Y., Halbwachs Maurice (1877-1945), in Barus-Michel J., Enriquez E., Lévy A. (a cura di), Dizionario di psicosociologia, Raffaello Cortina Editore, 2005, (2002), pp. 471-473.
L’approccio psicosociologico può essere visto come un movimento, un dibattito continuo che rivolge l’attenzione alle questioni che investono i soggetti, i gruppi, le organizzazioni, i sistemi istituzionale, alle loro culture, alle relazioni interne e le influenze reciproche e trasversali. Entrano in gioco diverse discipline: psicologia, sociologia, antropologia, economia.
Il rischio è di mescolare le carte.
Non si tratta di applicare la psicologia ad altri campi disciplinari, ma di attingere quadri interpretativi, strumenti, approcci, sguardi per letture e interventi utili ai soggetti.
Gli approcci che si richiamano alla psicosociologia lavorano per promuovere cambiamenti, impegnandosi per il rispetto e la promozione dell’autonomia degli attori e per la loro partecipazione a processi di evoluzione.
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