In questo post mi allontano dalle voci della letteratura per discutere l’impostazione (e le relative fatiche) dello scrivere nello spazio digitale. Il libro di Jaron Lanier, dal quale afferro qualche pensiero, non ha nulla di manualistico, è piuttosto una raccolta di riflessioni, quasi una serie di post cuciti fra loro (forse un genere letterario emergente, segnalato ma non diffusamente esaminato).
Scrivere non è solo scrivere. Scrivere è più cose: produrre il testo, curarsi del layout, delle immagini che innescano, agganciano, corredano o che motivano la scrittura stessa, è etichettare e categorizzare, ipertestualizzare (inserirsi cioè in conversazioni), è scegliere il momento della pubblicazione, rilanciare, ritornare a rivedere il testo, seguirne la fruizione, rispondere ai commenti cercando di costruire un discorso, e ancora modificare il testo sulla base dei riscontri. Scrivere in rete non è solo l’azione scrittoria, la stesura del testo, ma l’insieme delle pratiche di redazione, di pubblicazione, di post produzione, di dialogo e promozione digitale.
La fatica di scrivere in rete sembra azzerata dall’apparente nonchalance e dalla facile tecnologia del rilancio. Per scrivere in internet è necessario affrontare la fatica di produrre un testo capace di fermare per un nanosecondo il flusso di coscienza di rapidissimi lettori o lettrici e… farsi ascoltare (il 76% dei lettori/trici di Mainograz si ferma per meno di 5 secondi sul blog: entra e schizza via. Diverso il comportamento del restante 24 %).
La fatica di scrivere 2.0 è tenere a freno l’impazienza, l’urgenza di postare: si tratta della fatica dell’attesa.
«Paragonati ai numerosi problemi che il mondo si trova oggi ad affrontare, i dibattiti riguardanti la cultura on-line possono non sembrare così urgenti. […] Ma la cultura digitale e le questioni ad essa legate, come il futuro della privacy e della proprietà intellettuale, riguarderanno la società in cui viviamo se sopravviveremo a queste sfide.
Ogni appello a salvare il mondo comprende sempre un elenco di cose che “ciascuno di noi può fare”: usare la bicicletta per andare al lavoro, riciclare i rifiuti, ecc.
Io posso proporre un mio elenco relativo ai problemi di cui parlo:
- Non pubblicate nulla anonimamente a meno che non corriate dei veri rischi.
- Se vi impegnate a lavorare su voci di Wikipedia, impegnatevi ancora di più quando vi esprimete a vostro nome al di fuori di wiki, per attrarre chi ancora non sa di poter essere interessato verso gli argomenti cui avete contribuito.
- Create un sito web che dice qualcosa di voi senza conformarvi ai modelli standard disponibili sui siti di social network.
- Ogni tanto, pubblicate un video la cui realizzazione vi abbia chiesto cento volte il tempo necessario per guardarlo.
- Scrivete su qualche blog un post che vi abbia richiesto settimane di riflessione prima che abbiate avvertito l’esigenza di condividerlo.
- Se usate Twitter, siate innovativi cercando di esprimere quello che accade dentro di voi, anziché descrivere banali eventi esterni, per evitare il rischio subdolo di credere che gli eventi descritti oggettivamente vi definiscano come definirebbero una macchina.
Queste sono solo alcune delle cose che potete fare per essere una persona invece che una miniera di frammenti sfruttata da altri.»
p. 29-30
Jaron Lanier, Tu non sei un gadget, Mondadori 2010 (ed. or. 2010).
Parto dal fondo.
Provo a riformulare i pensieri di Lanier condensati nell’esalogo. Le piste interpretative sono tante e non riconducibili con facilità a tracciati definiti. [In effetti il libro di Lanier è un po’ ricorsivo e un po’ labirintico, di non facile lettura. Ma questa è un’altra questione].
Una delle preoccupazioni di chi scrive in internet è di essere frainteso. È invece sottinteso che (forse) verrà rilanciato, (forse) fatto a pezzi, (forse) estrapolato, (forse) citato, (forse) saccheggiato. Non mi pongo la questione se tutto ciò (mi) faccia piacere o meno. Rilevo semplicemente che è così. Anzi, nella cacofonia generale, essere rilanciati o citati a volte è un onore [mi lusinga che un mio post venga aggregato ad altri, meglio se da blogger di fama]. Il punto è che pezzi di noi possono essere rilanciati, ma tutti i frammenti colgono di noi solo elementi parziali e inconsistenti. E la nostra scrittura può accondiscendere, prestarsi, essere già frammento, ammiccare, solleticare questo modo di scrivere, riconoscerlo, accreditarlo e consolidarlo.
Oppure no.
Lanier assume un punto di vista che non celebra l’epoca e i costumi del web 2.0, e segnala che i ritagli, l’essere fatti di ritagli, comporta il rischio di indebolire oltre soglia la nostra identità dinamica e mutevole.
Se può ammaliare l’essere aggregati o ritagliati, scrivere con questi obiettivi genera uno strano tipo di scrittura. E qui sta un’immensa fatica: scrivere per catturare i lettori a una lettura che li induca a salvare i post, a rilanciare integralmente, a stampare e a conservare, a discutere…
Quanto a Twitter (che uso poco) posso comprendere che scritture banalmente descrittive finiscano per testimoniare presenze disingaggiate (ma il cazzeggio rimane un piacere). Osservazioni casuali rimbalzano saturando lo spazio cognitivo e emotivo. Ci sono alcune scritture brevissime che invece sono fulminanti. Spiegano la foto di cui sono co-didascalia (e a volte sostituiscono la foto). Parlano della realtà e contemporaneamente della persona che scrive. Spingono a riflettere, si incastrano nei nostri pensieri, ritornano, ci fanno piacere o dispiacere. Scritture-pensiero, attivanti… Scrivere di Marguerite Duras sembra un libro scritto per Twitter, Il libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa è scritto per un blog [Non so se posso fare questi accostamenti]. La produzione di scritture ad alta densità emotiva è qualcosa di troppo faticoso e desiderabile: entra in gioco la capacità di sintesi, la semplicità, l’incipit, il rivolgersi a tutti e a ciascuno, il cogliere il punto, il trasmettere un pensiero vibrante.
Che scrittura potente sarà mai questa?
Pensarci bene prima di pubblicare. Non copiare, non rilanciare e basta. Non limitarsi a citare, non inoltrare senza un perché. Produrre da sé, qualcosa di proprio. C’è spazio per tutti. Scrivere in internet è inclusivo. Basta un commento, una piccola collana di commenti per costruire un post. Un punto di vista, il desiderio di non lasciarsi sfuggire un’intuizione. Una battuta.
A una condizione: che siano contributi intenzionali e accurati.
Produrre un video. Si fa strada la multimedialità. Vorrei essere capace di produrre un video, pensare una storia, girarla con il mio cellulare, montarla, metterci musica e parole… A dirsi non sembra difficile. Sul web 2.0 scrivere in forma multimediale richiede competenze che vanno costruite. Anche il solo resoconto di un intervento, una brevissima clip per spiegare qualcosa, che so, l’importanza degli orologi a muro nelle stanze colloqui, richiede un lavoro oneroso di ideazione, preparazione e realizzazione. Di contro pubblicare in internet sembra così immediato e facile… [Ma non lo è, se penso ad esempio ai video che Luciano Barrilà sta preparando per Fai un salto con l’obiettivo di documentare gli interventi al recente X Workshop sull’Impresa Sociale (Riva del Garda, settembre 2012), il lavoro richiesto è consistente, anche ‘solo’ per ridurre comunicazioni tutto sommato brevi 10-15 minuti) a clip salienti di 3 minuti].
La proposta di Lanier implica la necessità di aggiornare le proprie competenze tecnico-tecnologiche.
Un sito web… i template disponibili sono infiniti, gli hosting gratuiti innumerevoli, WordPress è a disposizione. Tutto sembra così easy e cool, tutto così a portata di mano. Quello che Lanier intende dire – usando il verbo ‘creare’ – mi pare sia meglio esprimibile con il verbo ‘costruire’: il punto non è aprire un sito web, ma farlo vivere, rappresentarsi e sostenere l’impegno continuativo richiesto. Un sito che abbia un ‘quid distintivo’ (per usare un’espressione di Eleonora Cirant), che dica qualcosa di interessante, di utile, che valga la pena considerare.
Fare un blog da visitare di tanto in tanto, non è cosa semplice.
Scrivere 2.0… Sedurre? Appassionare? Incuriosire? Dialogare? L’importante è che sia produzione propria. Ma non è facile essere creativi, inventare qualcosa di accattivante o di gustoso, esprimere se stessi senza accodarsi: i modelli da seguire si insinuano, presenti anche quando ci si colloca per differenza. L’indicazione si riferisce alla cura con la quale scrivere, ingrediente segreto dell’attrazione.
Sull’anonimato sono d’accordo quando si tratta di prendere posizione. In generale non gradisco le amicizie in Facebook camuffate e i falsi profili… Anche se mi capita di mettere in dubbio il mio punto di vista. So di un amico che sta scrivendo un blog-romanzo sotto mentite spoglie… Nel libro I terribili segreti di Maxwell Sim, Jonathan Coe racconta di come il protagonista, per stare in contatto con la ex-moglie, assume un’identità fittizia che però gli consente un’interazione via internet autentica.
Proprio per via della menzogna identitaria.
La fatica di scrivere (produrre) in internet è oggetto di studio e di confronto. Jaron Lanier presenta un punto di vista non conformista. Rileggendo le sue sei speranzose indicazioni, il denominatore che le collega è un richiamo alla produzione originale, all’affermare se stessi per mezzo del proprio lavoro. Il titolo del libro di Lanier da cui ho tratto la citazione, per un certo tempo mi è stato incomprensibile. Adesso penso che intenda dire che non ha senso lasciarsi trasformare in un gadget, consentire che da soggetti si possa venire ricombinati in forma di oggetti.
E in rete un qualche rischio c’è.
Quello che volevo dire, lo dice meglio Lanier nella copertina del libro.
mi è venuto in mente che la trasformazione che la rete ha impresso alla scrittura, possa essere simile a quella impressa alla musica registrata: pubblicare (rendere pubblico) quello che si è scritto, in una forma che sia comprensibile ed attraente e dignitosa dal punto di vista grafico, è adesso mooooolto più semplice, rispetto ad un tempo in cui per essere pubblicato (reso pubblico) dovevi stampare, distribuire fogli, entrare in redazioni, fondare riviste, ciclostile, stamperie, peso della carta, costo dei colori….oggi pubblicare e pubblicarsi è estremamente facile, dal punto di vista tecnico. Ma la sovrabbondanza di agevolezza non soddisfa comunque il desiderio di fondo…anzi lo illude e lo sfibra, lo tende e lo diffonde. Ecco, un bel post intelligente, lo pubblico….chi lo legge….ecco, due persone…mmm…nessun commento….vabbè…E via di monitoraggio in monitoraggio, di evidenza in evidenza…la potenza del mezzo e la rappresentazione sterminata del contesto (LA RETE!) non sono sufficienti a dare soddisfazione. E che al fondo ci sia una questione di piacere, mi sembra rintracciabile anche in questo esorbitante comunicàr di sé, del piccolismo, della soprammobilità delle vicende, del proprio ‘vissuto’. E giù di particolari e descrizioni, spalmati in discesa sul ghiaccio verso l’autenticità. Meglio di no, dai.
vittorio
Ciao Laura,
condivido l’idea (e la sensazione) che i decaloghi abbiano una funzione di sostegno.
Forse questa è una delle funzioni della scrittura aforistica.
Come si determini l’effetto è un mistero da indagare;-)
Fantastico!
E’ la prima parola che mi viene in mente.
I suggerimenti di Lanier mi sostengono. Scendono su di me come una pioggia di freschezza e di leggerezza.
Grazie!