Ho trovato un suo libro in biblioteca e il titolo mi ha incuriosito: “Teoria della prosa”.
[Che cosa facciamo se non scrivere in prosa la più parte delle cose che scriviamo?]
Ma senza solide conoscenze non è immediato mettersi in sintonia con un formalista russo che all’inizio del secolo scorso ragionava di letteratura.
Provo con Wikipedia… Viktor Shklovsky fu un critico e uno scrittore frammentario, digressivo. Riprendo in mano il libro e leggo la prefazione.
«È del tutto pacifico che la lingua subisce l’influsso dei rapporti sociali.
Gleb Uspensky ha scritto un bozzetto in cui un gruppo di pescatori crea un proprio genere di vita e inventa i nomi di una costellazione “per via della marena”. Pescano le marene di notte e le stelle sono loro necessarie per indicare la rotta.
Nella lingua degli allevatori di bestiame troverete sempre molte parole che indicano certi aspetti particolari, certe sfumature di pelame, che non possono neppure essere tradotte con esattezza.
Ma la parola non è un’ombra.
La parola è un oggetto. E cambia secondo sue proprie leggi, legate alla fisiologia del linguaggio, e così via.
Se in una lingua il nome del pettorale della corazza diventa il nome del petto dell’uomo, il fatto può certo essere spiegato da un punto di vista storico. Ma i mutamenti della parola non avverranno parallelamente a mutamenti della forma del pettorale, e la parola può sopravvivere al fenomeno che le ha dato origine.»Viktor Shklovsky, “Prefazione”, in Teoria della prosa, Einaudi, 1976 (ed. or. 1925), p. 3.
Le parole sembrano avere vita propria. Avere senso pregnante in uno specifico contesto. La loro risonanza si perde fuori dall’accordo cognitivo ed emotivo di coloro che le usano, attribuendo significati comprensibili, grazie all’intesa interpersonale (e culturale). Senza le parole, e senza l’attribuzione di un significato che le renda capaci di comunicare, saremmo come pescatori sospinti lontano dai banchi di pesca e dalle rive conosciute.
Provo a dire come mi sono perso e quale fatica per recuperare un approdo.
Non sapevo di fare confusione fin quando non mi sono trovato a disposizione due sole parole per descrivere (prima a me e poi ai miei interlocutori) una proposta, un’idea che – più la argomentavo – meno suscitava interesse. Il punto è questo un’organizzazione piuttosto grande ha chiesto un intervento per mettere a punto la comunicazione interna e con gli interlocutori esterni. Le proposte e le iniziative, i servizi e i risultati, il lavoro e le persone possono venire raccontati, resi visibili, valorizzati. Il punto è come. L’idea che le figure di coordinamento assumessero anche un ruolo di narratori, divulgatori, visibilizzatori di quanto l’organizzazione produce per e con gli utenti, le loro famiglie e la comunità, sembrava una via percorribile con investimenti e fatiche abbastanza sostenibili.
Ma quello che non piaceva, quasi disturbava, era l’idea che si scrivessero post.
E la modalità blog veniva percepita come troppo superficiale, frettolosa, estemporanea.
Il gruppo di lavoro poteva accettare l’idea di lavorare come una redazione, ma non accoglieva l’ipotesi di realizzare un blog fatto di post…
Naturalmente le azioni comunicative erano anche altre: dalla revisione del sito istituzionale agli interventi sui giornali locali, alle iniziative nel territorio. Ma l’idea di raccontare cammin facendo la varietà di attività (programmate, in corso e realizzate) mediante il supporto di un blog veniva avvertita come poco rispondente alla qualità dei contenuti da rendere pubblici.
Due le critiche alla proposta di gestire una comunicazione partecipata, meno ingessata e più fruibile:
Imprigionati nelle parole ‘blog’ e ‘post’, il ping-pong sembrava non avere fine, anzi ad ogni rilancio cresceva uno scambio sempre più serrato e inconcludente.
Cosa ci ha portato fuori dal pensare in tondo (e dal girare a vuoto)?
Tre mosse combinate fra loro (tre colpi di fortuna):
Le esperienze, gli strumenti e le parole si combinano fra loro costituendo nuove ‘oggettività’, più numerose, più combinabili, meno zavorranti, più collegabili alle rappresentazioni e alle esigenze dei soggetti e delle loro organizzazioni.
Tralascio esperienze (ci saranno certo altre occasioni). Mi concentro sulle parole.
Quello che abbiamo concordato nel gruppo di lavoro è stato di usare post e articolo come due riferimenti per orientare la scrittura. E di non chiamare blog quello che sembrava essere un giornale on-line.
Per sviluppare un progetto condiviso sarà necessario organizzarsi come i pescatori che pescano le marene, trovare le parole per nominare le stelle, assegnare a oggetti sufficientemente stabili il valore di punti di rifermento, costruire un codice interpretativo ed esplicativo che permetta di spiegarsi, di coordinarsi, di ragionare sulle intenzioni e sulle azioni dei singoli e del gruppo, di intendersi.
La prefazione di Shklovsky mi ha rimandato alla fatica di gestire blog e scrivere post, alla difficoltà di costruire un linguaggio interfacciante per parlarsi, al disappunto di affidare alle parole sensi che si rivelano solo dopo un lungo lavoro di precisazione e di tuning. Ho riletto più volte il passaggio «…un gruppo di pescatori crea un proprio genere di vita e inventa i nomi di una costellazione “per via della marena”. Pescano le marene di notte e le stelle sono loro necessarie per indicare la rotta.»
Mi conforta sapere che nell’intricatezza mutante della realtà è possibile costruire con altri un percorso, anche assegnando nomi condivisi, predisporre parole temporaneamente salde per poterci fare affidamento.
Grazie delle tue / vostre riflessioni contenute nel post, o meglio: articolo.
Credo ci sia una sorta di resistenza alla parola blog, come se chi lo fa stia solo giocando e la parola stessa, BOLG sia sinonimo di “diario”, nella sua accezione più adolescenziale, o – peggio – sinonimo di qualcosa di inutile.
Il libro che hai citato di Shklovsky (ti ho trovato seguendo il filo del suo nome), ha bisogno di essere letto. Lo pensavo prima e tu me ne hai rafforzato la convinzione.
Carla
prendo al volo questo sforzo di costruire nuove oggettività.
che mi suona (le parole suonano? ma il significato ha anche una valenza sonora, oltre che concettuale??) come condividere che qualcosa sia vero, non sia soggettivo, ma piuttosto comune.
e mi è venuto in mente come il lavoro in gruppo in vista di un obiettivo, che si realizza attraverso confronti, scontri, scambi…sia un progressivo, appassionato e talvolta digrignante tentativo di costruire un’oggettiva a cui tutti convenire, per poi proseguire ed affrontare il reale.
e di come questa che chiamiamo ‘crisi’ sia anche difficoltà diffusa di giungere a costruire queste oggettività condivise. ognuno sta attaccato alle sue (formalismo burocratico, ideologismo moralistico, pragmaticità aziendale….). le parole diventano immutabili. le marene non ci sono più, ci sono da pescare vongole. continuo a comunicare ed ad agire come se pescassi marene. non prenderò nè le une, nè le altre.
e rimane la fame.
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