La pubblicità vende desideri (e ci rende macchine desideranti).
Se pensiamo ai desideri ci immaginiamo qualcosa di espansivo, un di più, un non ancora, qualcosa che vive nei territori dell’oltreattualità.
Ma non è sempre così: non solo status, non solo corpi eccitanti, non solo spiagge, cime, performance, non solo tecnologia, velocità, altezza, forza, sinuosità, morbidezza, lucentezza, profondità…
Accade che la pubblicità si impegni a far leva sul desiderio di ricevere indicazioni esistenziali (educative).
Banalizzando, si potrebbe dire che spesso associamo i desideri ai territori dell’Es, del tumulto, del trasgressivo, della potenza: “Possiedimi, dòmami e ti sarò fedele. Guidami e sarò la tua auto”.
Mentre la linea italiana(!) del Mulino Bianco fa appello ai campi tracciati e curati del Super-io: risponde al desiderio del monito, dell’ingiunzione, della disciplina esistenziale: “Sono la fetta biscottata della tua famiglia. Spalmami, e ti farò amorevole, capace di cure, sensibile. Attento”.
Dei dieci comandi che compongono la vision biancomulinante, oggi riporto il sesto.
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Dedicati a chi ti è vicinoFai della prima colazione un’occasione di incontro. Se hai dei figli, concedi a loro e a te stesso una chiacchierata in relax. È meglio che stare da soli davanti a uno schermo.
La lunghezza della prescrizione è poco più di un tweet (203 caratteri contro i 140 di ordinanza).
Ma dentro non c’è un solo mondo.
Quale complesso messaggio viene veicolato?
Il modo verbale è quello imperativo, come si conviene alle intimazioni sapienziali.
“[Comprami] e saprai dare attenzione a chi ti è vicino“.
Non è richiesta la famiglia tradizionale (ma se c’è aiuta).
Se hai figli a maggior ragione fai spazio alle parole tra noi [si è sempre di corsa, non ci si parla mai…].
“Datti tempo, relax yourself. Conversa, stai in relazione, non lasciarli soli [non stare solo!] davanti a uno schermo (computante-televisivo-videogiocante)“.
A chi parla il saggio che vive nel mulino bianco?
A me in quanto genitore?
A me in quanto soggetto esposto alla solitudine?
A me in quanto nonno, compagno, marito, amante?
“Comprami, ti ho capito sai, e ti conosco. So delle tue fatiche famigliari. Comprami: 80 chances di euritmia famigliare, 80 slot di responsabilità (all’italiana;-)”
Quale retorica e quale visione politica mi propone con questo stile di consumo?
La confezione delle fette biscottate del Mulino Bianco andrebbe analizzata da tutti i suoi lati.
Ogni lato riporta – non a caso – informazioni specifiche. L’indicazione decalogica sembrerebbe essere sul retro (anche se molto dipende da come le confezioni vengono disposte sugli scaffali).
Il particolare che voglio sottolineare è che il testo non può venire coperto dalla presa delle mani. Mentre nel momento in cui si tira la linguetta per aprire la confezione il testo – con il mandato di buona condotta domestica – viene tagliato, e si dissolve.
Un testo effimero?
Fatto per il momento dell’acquisto e non per il momento della fruizione?
Non è il risveglio il momento propizio per incalzare il Super-io.
Semmai un varco si apre nel momento della scelta, quando lo scaffale di interroga: lì si decide da che parte stare.
Mangio le fette biscottate di corsa.
Il mio grande si alza con la luna storta.
Il piccolo ci mette un po’ a passare dal sonno alla presenza più o meno consapevole.
C’è tutto un movimento in casa, più sequenziale che convergente.
Si intersecano semiautonomi processi di preparazione alla giornata che incalza.
Inizi turbolenti.
A volte già irritati.
Adesso ritaglio gli ordini barilleschi, appendo gli esergo in cucina, ci voglio fare un decalogo.
I dieci principi fondativi della armoniosa famiglia li voglio lì, appesi agli stipiti, da contemplare ad ogni passaggio.
Cerco armonia da spalmare sognando.
In fondo potrebbe anche essere che chi produce panbiscotto si sia messo in attenta risonanza con i desideri profondi e non facilmente esprimibili di una buona parte di noi.
Anche se ci disturba (in parte) l’uso di questo ascolto attento, l’effetto ‘dieci comandamenti’ potrebbe essere null’altro che una risposta commerciale a un bisogno culturale.
Trova il tuo tempo è un precedente post sull’argomento e sull’orientamento convergente tra produttori e consumatori.
grazie Matteo che hai rilanciato questo post (è un piacere leggerti) e la discussione su Appunti di lavoro! Me l’ero persa, e ho potuto recuperarla.
Da quando sono diventata una consumatrice politicamente corretta Mulino Bianco non entra più in casa mia… Secoli!!! Isolata nel mio regale trono di consapevolezza, mi perdo certe chicche. Grazie Graziano!
Quel che più mi ha colpito, nel tuo post, è di averci portato in casa tua, un mattino, tra una fetta biscottata e l’altra.
ciao graziano….leggendo tutto il tuo post e le risposte dei tuoi amici , mi rendo conto di quanto poco la pubblicità famigliare conti per me…non compro niente del MUlino Bianco..a dire la verità la pubblicità su di me ha poca leva..ma solo quella legata a CIBI , come bene sai se fosse altro lo analizzerei di piu’… una cosa pero’ la devo ammettere: invidio positivamente tutti coloro che con la loro creatività fanno di poche parole ben messe insieme un motto che induce altri ad acquistare proprio quel prodotto…d’altronde se dico ” the best is yet to come..” fai subito il link mentale..::))) ciao graziano …buone vacanze a te e alla tua famiglia..
the best is yet to come….( cit)
anna
Dire che la pubblicità contribuisce a costruire l’immaginario sociale, e quindi la società, mi pare solo una parte della verità, che ci aiuta a sentirci meglio, nell’ipotesi di riuscire a rifuggere dalla pubblicità e quindi a non farci plasmare. Però la comunicazione ha presa se fa breccia nei meccanismi cognitivi selettivi già di per sé presenti nel destinatario: pertanto la pubblicità legge e insegue un determinato immaginario sociale già esistente e, quindi, solo come effetto secondario, lo amplifica.
Da qui il cambiamento di molti dei messaggi pubblicitari cui siamo sottoposti. Anche in settori merceologici più lontani non si fa più solo leva sul nostro desiderio di avere qualcosa che non possiamo, ma su quello di essere qualcosa che non riusciamo (come appunto una famiglia perfetta). A questo proposito mi ha colpito ultimamente la pubblicità dell’Enel: http://www.youtube.com/watch?v=K-qzvQR6SyM&feature=related
Comunque, con buona pace per chi butta velocemente il lembo della confezione nella plastica (io, più golosa, mangio i biscotti e i 10 comandamenti ce li ho sempre davanti!), qui potete trovare il libro “Colazione all’italiana”, sottotitolo “Un gesto di amore”: http://www.mulinobianco.it/documents/10760/a778f105-621d-4b1b-b7c0-fb01a68a23b0
Non abbiamo scampo?
I commenti al post Armonie dorate mi hanno fatto riflettere. E le risposte ai commenti sono tracimate in un quasi-post.
> Questi i miei pensieri sulle osservazioni di Matteo Lo Schiavo
Il post Armonie dorate prova a mettere il luce una rappresentazione (dal mio punto di vista) meno diffusa sulla pubblicità, quella di produrre desideri di miglioramento esistenziale e non tanto di superamento delle proprie condizioni. Una constatazione. Senza alcuna implicazione morale. Ci sono pubblicità che solleticano il nostro desiderio di essere più forti e altre il nostro desiderio di essere più buoni. Il Mulino Bianco ha scelto la seconda.
L’obiettivo del post non era mettere la pubblicità sul banco degli imputati, quanto ragionare sui microfunzionamenti retorici di una specifica pubblicità.
Se c’è, dove sta il giudizio?
Trovo il messaggio del Mulino Bianco superficiale.
Se le frasi fossero sulle confezioni che contengono le fette biscottate, allora potrei trovare che queste sollecitazioni vengono messe a disposizione proprio nel momento della fruizione del prodotto. Mentre i comandamenti sono sull’involucro e servono a rispondere alla motivazione d’acquisto, non a favorire comportamenti.
Il post Armonie dorate si chiude poi con un ragionamento: forse non è la pubblicità che ci orienta, ma siamo noi che orientiamo (con i bisogni che sviluppiamo e che mettiamo in circolo) la pubblicità: la pubblicità è una risposta non un input.
La pubblicità del Mulino Bianco ci promette quello che già desideriamo (ci promette, ma non ci offre!).
Una battuta sui consulenti
Le dinamiche nella relazione cliente-consulente sono da esplorare. Variazioni su variazioni. Per il malfunzionamento dei servizi non metto sul banco degli imputati (solo) i consulenti. Le responsabilità vanno ricercate negli intricati meccanismi di intervento. Detto altrimenti: siamo sicuri che del malfunzionamento dei servizi alla fine siano i funzionari o i politici i soli responsabili? Non è che si creano strani e diversi ‘impasti’ tra… politici, funzionari e consulenti (e clienti)?
> Questi i miei pensieri sulle osservazioni di Giuseppe Mazza
Naturalmente ho letto l’intervista a Giuseppe Mazza – La consistenza delle parole (non solo) nella pubblicità – pubblicata sul blog lavoro ben fatto!.
E naturalmente riconosco di essere ignorante al punto da ignorare quello che ignoro.
Ma una cosa mi è abbastanza chiara: non intendo giudicare i pubblicitari in quanto categoria professionale presa in blocco. In fondo siamo tutti pubblicitari, anche se non per professione, ciascuno di noi prova a comunicare con intenti informativi-persuasivi qualcosa di sé (con sottigliezza di strategie e mezzi).
Capitalismo
E neppure penso che la pubblicità sia un prodotto tipico del capitalismo. Cosa sono le propagande di regime, se non forme di pubblicità. Pensiamo alle gigantografie di presidenti, ai proclami, ai piani, alle autocelebrazioni di dittatori o di nazioni/nazionalità. Qualcuno le avrà pur pensate quelle ‘pubblicità’… Quindi sono d’accordo, l’equazione pubblicità = capitalismo non regge. Non regge sul piano storico.
Elite
Veniamo all’argomentazione della critica morale che finisce per essere elitaria. Qui invece non sono d’accordo. Chi l’ha detto che la morale è delle élite? Semmai il contrario la morale è l’oppio del popolo, le élite hanno maggiori opportunità per giustificare di volta in volta una certa varietà di morali (esagero lo so, ma la polemica esige semplificazioni necessarie). Qual è il punto di vista che assumevo nel mio post? Il punto di vista di un consumatore infastidito. Infastidito dall’invadenza del Mulino Bianco, che non solo promette armonia relazionale attraverso il consumo dei suoi prodotti, ma arriva a sentenziare quale comportamento dovremmo tenere. Una pubblicità che ammicca al nostro bisogno di armonia, una predica fragrante, il desiderio di essere un brand che ci migliora. Questa sì una sofisticata semplificazione. E allora mi infastidisco.
Quanto allo studio della pubblicità succede che a volte ne parlino persone che non sono del mestiere. E allora? Per parlare di religione bisogna essere preti? Per parlare di calcio, calciatori? Di cibo, cuochi? E di vino, viticoltori?
Responsabilità d’impresa
Ancora un passaggio, a proposito di responsabilità di impresa. Qui il tema si fa ancora più spinoso. In cosa consiste la responsabilità di impresa? Nell’esprimere un’invocazione alle buone relazioni? Tutto qui? Certo una parola chiara sul mondo che vogliamo, una presa di posizione è già una buona cosa. Ma noi accetteremmo di definire responsabile un’impresa che esprime un giudizio generico sulle relazioni genitoriali? Cosa penseremmo di una pubblicità della Fiat che ci suggerisce di dare la precedenza? Dal punto di vista pubblicitario mi sembrerebbe molto interessante, non ridurrei la responsabilità alle sole invocazioni ai buoni comportamenti. Quindi il campo dell’essere responsabili, anche attraverso la pubblicità mi sembra molto aperto, meritevole di approfondimenti.
> Un’informazione generale
Non compro i prodotti del Mulino Bianco proprio per l’implicito messaggio buonista.
Allora come sono finite queste benedette fette biscottate sul tavolo della cucina?
Un acquisto in promozione presumo.
Allora sono un essere superiore ai richiami della pubblicità?
Certo che no!
Scelgo (come i più) sulla base della pubblicità che ascolto (o a cui decido di dare ascolto).
E in questo mi ritrovo nelle argomentazioni che Mary Douglas sviluppa in Questioni di gusto, Il Mulino, 1999: negli acquisti che faccio esprimo una mia scelta sul mondo.
Non sono un pubblicitario, so che la proposta che mi gira in testa potrebbe essere molto costosa e presentare non poche difficoltà, ma… Mi piacerebbe alzare la linguetta richiudibile delle fette biscottate Barilla e scoprire lì un messaggio di buon giorno (si pensi allo spot 2011 di Nutella). È lì che vorrei trovare parole di incoraggiamento (ogni mattina ne ho assoluto bisogno). Non sono interessato a un prodotto che si fa comprare con una promessa svagata. Mi piacciono (di più) i prodotti che mantengono quello che promettono: di gadget di plastica (stile ovetto Kinder) ho ne ho pieni i cassetti. Preferisco giochi che siano giochi, cibo che sia cibo, promesse che siano promesse (e non allusioni), baci che siano baci.
Per questo quando compro mi ritrovo davvero a esprimere posizioni di dissenso (qui direttamente Mary Douglas, “Lo shopping come protesta”, pp. 33-58.).
No-brand
E allora, viceversa (con tutti i rischi del caso) meglio un prodotto no-brand.
Meglio fette biscottate sulla cui confezione ci sia scritto:
“Qui dentro ci sono fette biscottate.
Fatte di acqua, farina, sale.
Prodotte con cura scrupolosa, buone per la prima colazione o la merenda.
E niente altro.
L’involucro è fatto di carta e di plastica.
Le persone che lavorano negli stabilimenti che le hanno prodotte sono trattate bene e rispettate nei loro diritti (comprese le esigenze di conciliazione).
E come azienda abbiamo a cuore l’ambiente e rispettiamo tutte le leggi.
Se oltre a questo, desideri altro, rivolgiti a quelli del Mulino dietro la curva”.
Anche questa è pubblicità.
Un gioco di collusioni
Quando compro so di non essere ostaggio della pubblicità.
Il gioco è più sottile.
Un gioco fatto di un dialogo interiore, di ragionamenti, di ponderazione, di slanci e di ripensamenti, di scelte alla ricerca di risonanze con la mia visione del mondo.
Per questo mi ritrovo nelle parole di Giuseppe Mazza: la pubblicità è un linguaggio. La pubblicità è un dialogo pubblico che contribuisce a costruire l’immaginario sociale, e quindi la società.
Ciao, grazie della risposta, piena di cose sulle quali se ti va vorrei continuare a ragionare.
Non penso che la morale sia in quanto tale elitaria, penso più precisamente che la critica morale alla pubblicità parta sempre da un punto di vista elitario. Il che non vuol dire che quella critica venga espressa da un’elite, vuol piuttosto dire che nel rivolgerla si assume una posizione elitaria. Si sale su un piedistallo dal quale si osserva la società di massa. Che poi il piedistallo sia tuo o preso in prestito non importa.
Trovo anche io utile Mary Douglas. Nell’introduzione a “Il mondo delle cose” insieme a Isherwood scrive: “La promozione delle vendite ha una cattiva reputazione e la proprietà evoca la nozione di colpa (…) Ci piacerebbe proprio sapere come vivono questi moralisti, qual è il loro stile di vita. Forse regalano ai poveri i loro diritti d’autore.” Mi scuso per il taglio operato a un testo meraviglioso ma arrivo alla conclusione: “L’iperconsumo è una faccenda più seria e complessa e per capirlo non basta l’indignazione morale”.
Quindi naturalmente va benissimo che ciascuno esprima opinioni su ciò che vuole, ma il senso della mia osservazione era altro: se si vuole arrivare a una qualche comprensione del fenomeno, e comprensione vuol dire governo, vuol dire pubblica utilità, va superata la lettura morale e va accettata invece l’idea di sapere poco, pochissimo, di un mondo diffuso in modo così pervasivo nella nostra vita. Questa sì una mancanza grave della nostra cultura.
E’ anche il motivo per il quale pubblichiamo un trimestrale sulla pubblicità. In un paese nel quale il linguaggio pubblicitario è (spesso a ragione) considerato il regno dell’irrealtà proviamo a proporne un’altra visione. Magari per scoprire che può essere anche un linguaggio di civiltà, come già avviene in tutto il mondo.
Concludo su Mulino Bianco. E’ certamente vero che i marchi hanno infiniti modi per essere responsabili e civili. Ho l’impressione però che non si accetti da loro che esprimano delle opinioni sul mondo. E qui torniamo alla nozione di colpa citata da Mary Douglas. In questo senso ti consiglio la lettura che Pasquale Barbella dà della storia di comunicazione Benetton in un articolo sul secondo numero di Bill, dal quale cito: “Ciò che sembra imperdonabile è l’accostamento tra l’anima e il commercio”.
La mia opinione è che non ci siano serie alternative a questo accostamento. Non lo è il prodotto no-brand cui accennavi, idea sottrattiva che non coincide con nessuna nostra esperienza quotidiana nè con le nostre categorie cognitive, temo. Faremmo ben presto la fine di Ninotchka, la funzionaria sovietica che a Parigi si innamora perdutamente di un cappellino e lo indossa di nascosto (Lubitsch, 1939). Bisogna avvicinare il più possibile il linguaggio pubblicitario alla realtà, e la strada non è impoverirlo: è semmai riempirlo delle nostre verità, trasformarlo in qualcosa di civile, interessante, realmente emozionante.
Qui entreremmo anche nelle ambiguità del concetto di decrescita, altro feticcio dialettico e “morale” che non ci avvicina alla soluzione dei problemi. Il consumo resta quanto di meno studiato e “guardato in faccia”. E intanto la pubblicità è sempre più brutta e inutile. Io dico che studiare (e provare) male non farà.
Grazie per lo spazio.
Giuseppe Mazza
Solo una battuta,
ogni nostro giudizio è morale, perché poggia su un visione e su una collocazione nel mondo (il nostro modo di vivere nella cultura).
A mia volta ti ringrazio per gli scambi di riflessioni.
Altre occasioni non mancheranno:-)
A presto,
Graziano
e infatti ho appena fatto colazione con fette biscottate di non so che marca (la confezione era in effetti bianca, ma non c’erano pale o rotazioni in atto….), da solo (le altre dormono), con la radio accesa e poi sono arrivato qui allo schermo per recuperare un po’ del tempo di lavoro che oggi mi mangerò con un permesso per prendere treno per la Svizzera. Ed in tutta questa infarinata quotidianità, il post di Graziano è il sacco giusto!
Ho preso al volo la sua notazione sulla valenza effimera dei 10 Comandamenti, che spariscono velocemente a casa, nel sacco della plastica. Non contano sul luogo di consumo diretto (a tavola, la mattina….), in quello dell’acquisto (supermercato, dove ci aggiriamo come in una biblioteca, guardando, toccando, rimirando, soppensando…oggetti portatori di messaggi, informazioni, desideri, valori -a partire da quello economico). Le tavole della legge vanno mostrate (ed eventualmente strappate o frantumate, quando l’urgenza del vitello d’oro -o della fame mattutina- prende il sopravvento…). E non dimentichiamo la passione collezionistica (voglio comprare le scatole di tutti i dieci comandamenti del Mulino!!), che Barilla stimola e sostiene da sempre (ho uno scatolone di pupazzetti, oggettini, matitine….regalati dal Mulinobianco….), consapevole che l’umano adora la serialità, la consequenzialità e la completezza.
E saremo tutti lì, entrando in stanze precise di un holidayinn qualunque, a lanciare la borsa da viaggio sul letto, a sgranchirci il collo accendendo la luce per poi spegnerla dopo un attimo, preferendo la abatjour. Ci siederemo sul bordo del letto, un clacson, un piccolo cigolio della rete, ci guardiamo le scarpe che vorremmo togliere. Ma poi ci alzeremo, ci dirigeremo verso la grande finestra e scosteremo le tende appoggiandoci al vetro, che immaginiamo robusto. Sullo sfondo un faro che non sappiamo dove appoggi, deposita un fascio luminoso che rende nitido il profilo di un casolare didascalico, ben costruito e ben tenuto. Disabitato. Avremo fame e non avremo niente da mangiare. Con un balzo che ci stupirà torneremo alla valigia, la apriremo voracemente, graffiandoci il dorso delle mani con quella cerniera che sarà il caso di cambiare. Estrarremo dall’interno un volumetto di media dimensioni, con la copertina fuxia virato grigio brugherio. Graziano Maino, La verità tutta la verità, dica lo giuro, Mondadori, 14 €. Ci stendiamo sul letto, consapevoli che questo libro ci farà passare la fame. Altrimenti c’è sempre in tasca quel maccheroncino che ci ha dato nostra figlia. Non sarà granchè, ma almeno è cibo. Ed il valore simbolico? Mica riempie la pancia!!
v
La pubblicità è un oggetto che mi interroga molto.
Ne sono attratto e altrettanto immediatamente la respingo.
Cerco di educare i miei figli al richiamo degli spot, raccontandogli della mia delusione di bambino quando il gioco che mi avevano regalato non era affatto simile a quello pubblicizzato. Mi rendo conto di essere poco credibile ai loro occhi e non so se la tecnica sia efficace.
Non sono un esperto di pubblicità e fatico a decifrare i messaggi, le costruzioni, gli impliciti di uno “spot”.
Talvolta incorro nel facile rischio di fare di tutta l’erba un fascio… attribuendo ai pubblicitari responsabilità di cui forse sono solo attenti osservatori o pensando che un mondo migliore sia possibile senza pubblicità.
Un po’ come mettere la consulenza (ed i consulenti) sul banco degli imputati per il mal funzionamento dei servizi pubblici.
Sono semplfiicazione che non aiutano alla comprensione e alla ricerca di strade diverse.
Come, per esempio, stanno provando a fare gli autori della rivista BILL, un’idea di pubblicità, nel quale sono riportati casi di pubblicità al servizio dei cambiamenti della società.
Per chi è interessato suggerisco un’intervista a Giuseppe Mazza, direttore della rivista, su http://lavorobenfatto.blogspot.it/2012/05/la-consistenza-delle-parole-non-solo.html,
oltre alla lettura della rivista stessa.
Perchè sono convinto che la contaminazione di saperi, sguardi, professioni, sensibilità sia la strada percorribile per fare lo sforso di osservare e cercare di comprendere la complessità che ci circonda.
Ciao Matteo,
grazie per la citazione.
A volte ho la sensazione che interessi di più – che sia più utile – questa immagine demoniaca e ingenua della pubblicità – i cinici professionisti che ti incantano – molto più che il considerarla come un linguaggio.
Che in quanto tale si presta a ogni uso, dal più indecente al più virtuoso.
Fai l’esempio dei consulenti. Giusto, perché intendi dire non confondiamo i piani.
Ma anche si dovesse parlare solo di pubblicità, sarebbe come se – e cito a memoria un bell’articolo di Guido Cornara sul primo numero di “Bill” – tutti i giornalisti fossero giudicati per quello che fa Emilio Fede, o tutto il cinema per Vacanze di Natale. Nessuno lo farebbe.
Eppure, questa semplificazione è irresistibile quando si parla di pubblicità.
Per ignoranza, certo (da intendersi nel senso letterale: non sapere).
Perché come disse Bernbach si confonde la pubblicità con il capitalismo (che amiamo criticare mentre speriamo che non crolli).
Perché a ciascuno piace assumere un punto di vista elitario e non appartenente alla cultura di massa: la critica morale alla pubblicità parte sempre da un punto di vista elitario.
In fin dei conti la cosa più interessante è vedere come quasi tutti quelli che parlano di questo argomento non l’abbiamo mai – non dico studiato – ma neanche fatto oggetto di autentica riflessione.
In questo caso, anche se io non ho a che fare con l’operazione di Mulino Bianco, che cosa disturba? Che la marca esprima un’opinione su come bisognerebbe curare la vita di relazione?
Eppure non ha detto cose sbagliate.
Quindi preferiremmo una marca che non ha niente a che fare con la nostra vita? Che ci ignora la dimensione sociale?
Vogliamo che le aziende siano responsabili, ma non apprezziamo che partecipino. Che senso ha?
Forse la troviamo ipocrita? E qual è la verità che ci nega, intanto obnutilandoci con le sue buone maniere?
Eccetera, eccetera, eccetera.
Negli anni dell’università (troppissimo tempo fa, sigh!) una delle lezioni più interessanti del prof. Marino Livolsi, sociologo della comunicazione (che personalmente stimavo per cultura e per raffinatezza di pensiero) fu l’analisi del marchio Mulino Bianco e di tutto il suo sotteso di rapporto con l’immaginario e i desiderata del consumatore. Un rapporto che dura da anni e che – una curiosità – vide un momento di crisi quando Barilla decise di girare degli spot in cui compariva il vero Mulino Bianco (che sta in Toscana), cioè l’ispirazione dell’arcinoto disegno sulle confezioni. Le vendite calarono e una ricerca svelò il perché: i clienti Mulino Bianco non volevano vedere il VERO Mulino Bianco, ma immaginare il LORO, metterci dentro il mondo che immaginavano e quello che desideravano mentre mangiavano fette biscottate e biscotti. Questo rafforzò nel marketing Barilla la convinzione di portare avanti quel rapporto essenzialmente emozionale costruito attorno al prodotto, che poi fu traslato anche sul marchio principale, per la pasta: “Dove c’è Barilla c’è casa”. Il manager che estrae il maccherone che la figlia gli ha fatto scivolare in tasca prima della partenza si trova in un albergo qualunque di un grattacielo qualunque ma non è straniato dalla solitudine perchè la sua casa non è fisica ma il solo frutto di tutto il suo immaginario.
P.S.: rilancio anch’io il suggerimento di Maria Teresa. Prenoto una copia! (-:
Sottoscrivo e rilancio il consiglio/suggerimento di Maria Teresa;-)
“Comprami, ti ho capito sai, e ti conosco. So delle tue fatiche famigliari. Comprami: 80 chances di euritmia famigliare, 80 slot di responsabilità (all’italiana;-)“
Applicazione magistrale di PNL…. entrare in risonanza con l’esperienza che il cliente ha vissuto fino ad oggi senza il mio prodotto, servizio, ecc ecc.
L’agenzia pubblicitaria la sa veramete lunga, complimenti! E complimenti a Graziano per averlo notato e commentato per noi con uno stile unico che lega competenza, umanità e creatività, e che personalmente gli invidio moltissimo!!! Io fossi in Maino ci farei un bel libro con questi post…. ;-))