Andrea Bortolotti
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Graziano Maino: Ti intervisto in cucina, mentre aspettiamo che salga il caffè. Stavi dicendo?
Andrea Bortolotti: Stavo dicendo che mi sono preparato, su come si fa a imparare dall’esperienza. Vorrei sapere però: imparare dall’esperienza, che cosa? E in quale genere di esperienza?
GM: Già, una bella domanda.
AB: Mi sembra ci sia da chiarire il contorno della questione, perché il termine esperienza ha molti significati e anche l’idea che si possa imparare dall’esperienza ha significati diversi a seconda, appunto, del contesto, degli obiettivi… Perciò comincia a dire qualcosa tu, poi dico qualcosa io. Dimmi qual è l’ambito in cui avviene quest’intervista.
GM: Una quindicina di persone tra Torino, Milano, Reggio Emilia, Verona, Lucca… ci occupiamo di ricerca e consulenza organizzativa. E ci chiediamo se sia possibile stare in contatto, attivare un network.
AB: E quali sono le domande?
GM: Ecco la prima. Quali occasioni di apprendimento hanno contribuito – o ostacolato – la costruzione della tua identità professionale? Puoi raccontarmi qualche episodio significativo?
AB: Io faccio due mestieri: l’insegnante e il consulente. Ho imparato a fare l’insegnante facendolo; e ho iniziato a imparare a fare il consulente facendo l’esperienza di formatore in azienda. Ricordo che una volta ero andato con molta circospezione, molti dubbi e preconcetti a seguire un corso che si chiamava “assistenza clienti”. Lavoravo come dipendente nel settore formazione del personale di una multinazionale e mi mandarono, per formarmi, a seguire questo corso che pretendeva di insegnare come trattare coi clienti in modo efficace. Era una cosa molto all’americana, anche se credo che l’iniziatore del metodo fosse un tedesco, che però mutuava molto dalle tecniche della comunicazione di origine anglosassone. Io dunque vado con molta perplessità e invece finisce che imparo delle cose relative al parlare in pubblico e all’intervistare un cliente. L’apprendimento non era concettuale, ma era, per l’appunto, esperienziale: per esempio l’istruttore faceva il cliente, tu facevi il venditore e dovevi cercare di avviare un dialogo con lui, che ti stoppava dopo un po’, dicendo: “no, non va bene” , senza spiegarti cosa non andasse bene, e subito doveva provare un altro corsista. Certo mi irritava che le cose non andassero bene finché non facevi proprio la cosa prevista, tuttavia direi che entro i suoi limiti il corso funzionava perfettamente, e che quel che ho imparato lì l’ho imparato per sempre.
Allora qual è il punto? Una delle condizioni per costruire un’identità professionale attraverso l’esperienza, sarà banale, ma è proprio fare esperienza. Tra le condizioni dell’apprendimento attraverso l’esperienza, la prima è provare. Provare a fare una cosa per vedere l’effetto che fa. E così, ecco anche la seconda condizione, che è appunto vedere l’effetto che fa. Insomma, le condizioni fondamentali dell’apprendimento dall’esperienza mi sembrano queste due: provare, e avere lo spazio mentale, o il setting formativo, o il feedback che ti dica come funziona quello che fai. Se mi metto ad imparare a suonare uno strumento, devo innanzitutto provare a suonarlo e il feed-back principale è costituito dal suono che produco; se riesco ad ascoltarmi intanto che suono c’è lo spazio per la riflessione e per correggere quello che vado facendo. Se suonando riesci a sdoppiare l’attenzione tra ciò che fai e ciò che ascolti, se hai abbastanza automatizzato il gesto da poterti ascoltare senza essere troppo concentrato su quello che stai facendo, allora il feedback è immediato, e il momento della riflessione coincide con il momento dell’esecuzione, la pratica coincide con la riflessione sulla pratica. Ma lo spazio della rielaborazione non coincide sempre con lo spazio della performance. In altre circostanze è necessario un distanziamento, un momento in cui il feedback sia possibile. In Pares per esempio cosa facciamo? C’è voluto del bello e del buono, ma alla fine l’abbiamo capito che il momento dell’équipe era decisivo, perché la riflessione costruisce un bagaglio di competenze comuni e l’identità professionale è creata appunto dalla riflessione sulle cose che si fanno.
Quindi, in sintesi: primo, fare; secondo, poterci pensare su.
GM: Cosa hai preso dal quotidiano nella costruzione dell’identità professionale?
AB: L’identità professionale non può essere costruita sul vuoto. L’identità professionale cos’è? Un insieme di pratiche e di riflessioni più o meno codificate, sedimentate in uno stile. Ma è possibile apprendere uno stile solo sulla base di stili precedenti, di pratiche già sedimentate. Uno non può imparare a suonare uno strumento se prima non ha imparato tante altre cose, per esempio a coordinare il movimento della mano con la respirazione, a guardare ed ascoltare contemporaneamente, a leggere e ad attualizzare quello che sta nel testo scritto… La vita quotidiana – il mondo della vita, come direbbero i filosofi – non è solo la base, ma anche il contesto dell’identità professionale, che è sempre lì dentro, no? L’identità professionale non è tanto la cima di una piramide, quanto il coagulo di una roba entro cui sei… A un certo punto coagulano certe pratiche, ma tutto il resto c’è già prima, e tu continui a starci dentro.
GM: Fammi un esempio…
AB: Quando ho frequentato quel corso lì sull’assistenza clienti, perché ho potuto farmene qualcosa? Perché ho buttato via l’intenzione manipolativa che c’era nella tecnica. Il corso insegnava che se vuoi conquistare un cliente e vuoi che ti compri qualche cosa, non devi mai parlare del prodotto che vuoi vendergli, né di te come venditore, ma sempre e solo di lui, di come è bravo, di quali sono i suoi punti di forza; e sarà lui a dirti che cosa gli servirebbe per far meglio; e guarda caso quel che gli serve, tu ce l’hai. Questa è manipolazione. Tu ti rivolgi a una persona come all’oggetto di una strategia di fascinazione, di catturamento, perché vuoi che lui faccia quello che dici tu. Ma quando io ho imparato la tecnica, ho potuto sovvertire l’obiettivo, cioè ho potuto tenere la tecnica buttando via la manipolazione, perché partivo da pratiche in cui, invece…
Sto pensando ai miei genitori che facevano i commercianti, avevano un ristorante in cui davo una mano come cameriere. Non bisognava che la gente andasse via contenta e basta; bisognava che andasse via contenta e che a nessuno venisse la gastrite, cioè bisognava che la qualità dei prodotti e del servizio fosse buona: non c’era manipolazione. Dopodiché, se già c’era questo rispetto fondamentale del cliente, poteva anche esserci una seduzione senza inganno… Se oltre a darti un buon piatto, ti sorrido anche, perché mi interessi non solo come cliente – certo anche come cliente – e ti riconosco una dignità come persona, allora quella roba lì vale! Su un insieme di valori e di pratiche che già c’erano, si è innestata poi anche una nuova pratica professionale. L’identità professionale non vive nel vuoto.
GM: E quali apprendimenti sono possibili nelle situazioni specificamente deputate a formare?
AB: La scuola insegna abbastanza poco, però è indispensabile lo stesso, perché quel che impari lì è gran parte di quello che ti rimane attaccato dopo, come bagaglio di base. Nella vita adulta hai poco tempo per rifarti una formazione davvero di base. Ma perché la scuola insegna poco? Perché ti dice molte cose ma te ne fa provare abbastanza poche, mentre abbiamo detto che si impara dall’esperienza quando l’esperienza la si fa. Non è che se impari cosa sono le guerre puniche, sei capace di fare la guerra. Quello che impari con la testa non è quello che impari anche con tutto il resto. Ciononostante il bagaglio acquisito nelle istituzioni educative è un patrimonio a cui continuamente attingi in seguito, per nutrire di senso quello che sperimenti. Perché quando ti capita di fare la guerra veramente o metaforicamente, allora forse ricordarti della guerra punica ti serve. Ma difficilmente andrai a studiartela se già prima non…
GM: Sì, giù i rostri…
AB: Appunto…
GM: …in mare [ridiamo]
AB: Se invece dovessi citare un’esperienza in una istituzione formativa, che sia stata formativa in senso forte e pieno, non parlerei del liceo o dell’università, ma del corso di psicoterapia quadriennale post-laurea.
GM: Che tu hai frequentato…
AB: Sì, ho seguito un corso quadriennale della Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione, che univa il momento della riflessione a un’esperienza di analisi di gruppo anche emotivamente molto densa.
GM: Un sistema strutturato e un tempo non breve, immagino.
AB Sì, ci vuole del tempo per fare esperienza. Il tempo per provare, e quello del feedback e del pensarci. Non so se questo tempo si possa calcolare, ma senza un tempo adeguato non c’è neanche crescita professionale, tanto meno identità. Nove mesi per nascere, un anno – si dice – per elaborare un lutto. Per costruire una identità professionale non so.
GM: E situazioni di apprendimento inaspettate?
AB: In certo modo ogni contesto è inaspettato. Alla fine dei Promessi Sposi c’è Renzo che parla con Lucia e lei gli dice: “allora cos’hai imparato da tutta l’esperienza?”, e lui non ha imparato niente, perché può ripetere solo i singoli episodi, non può generalizzare. Quand’è che si può generalizzare? Quando si hanno ipotesi. Però non necessariamente “avevo delle ipotesi, le ho verificate”, rimanda all’esperienza scientifica e all’esperimento. Piuttosto, “ho fatto l’esperienza e non so neanche cosa ho pensato, ma adesso a posteriori cerco di capire quali fossero le ipotesi inconsapevoli che mi muovevano e cosa è successo poi”. Stiamo un attimo su questo. Quando io faccio un’esperienza in un contesto nuovo – per esempio quando vado da un nuovo cliente – inevitabilmente ci saranno sorprese; se ci sarà il modo di rifletterci, ci sarà anche una ridefinizione dell’identità in relazione alla nuova esperienza. Nuove classi, nuova didattica, se riesci a pensarci su. Nuovi clienti, nuova consulenza, se hai il tempo di pensarci su, se non riproduci schemi, ma ridefinisci i tuoi orizzonti. È quanto in filosofia hanno detto Gadamer e gli ermeneutici. L’esperienza è tale in senso forte non se accumuli dati, se ripeti le stesse cose oppure anche se fai sempre cose nuove, ma se c’è in questo fare, che è anche un farsi, una continuità mobile, un ridefinirsi dell’orizzonte. Il tuo centro si sposta? Si sposta anche il tuo orizzonte, che mano a mano si ridefinisce in modo non meccanico, si amplia da una parte, mentre ti perdi una cosa che credevi di sapere prima… Pensa a quanto era importante per noi in Pares all’inizio, producendo bilanci sociali o carte dei servizi, arrivare al documento; e quanto invece adesso, di per sé, l’obiettivo di scrivere un documento sia quasi più importante per ragioni contrattuali che per il merito del lavoro, perché l’importante è quello che ci si dice quando si scrive un documento, quello che si elabora nell’organizzazione, più che il pezzo di carta che rischia di finire in un cassetto. Tutte le volte, ogni contesto è nuovo.
GM: E come apprende l’organizzazione nella quale lavori?
AB: La scuola fa un’enorme fatica ad apprendere, perché è un’organizzazione molto poco organica, fatta di individui che lavorano autonomamente e si scambiano le loro opinioni soltanto se hanno voglia di farlo. Al massimo affida al dirigente, posto che abbia voglia di farlo, il compito – in fondo impossibile – di omogeneizzare gli stili educativi, didattici, etc. Quindi la scuola impara poco. Ciononostante lavora, e spesso lavora anche bene; ciò vuol dire che, anche se la scuola impara poco come istituzione, le persone che vi lavorano probabilmente imparano molto, visto che nonostante tutto la baracca sta in piedi e consegna alla società civile persone che continuano a farla vivere. Come impara la scuola? Direi che impara dal rapporto con l’utenza ridefinendosi via via in tale rapporto, ma raramente socializzando e formalizzando il proprio sapere. Come impara Pares? Provando e pensandoci su, come abbiamo detto prima.
Ma vorrei fare un’altra distinzione, quella tra imparare e sapere. Imparare è una parola che ha a che fare con ‘parare’, un verbo latino. ‘Parare’ vuol dire da un lato ‘preparare’, dall’altro ‘acquisire’. Acquisire e preparare: qual è l’idea che c’è dentro? Che ‘impari per’, cioè che l’imparare ha a che fare con una visione strumentale del sapere; imparo per poter usare. Esperienza, invece, è una parola che ha un significato abbastanza diverso, perché ha a che fare con il provare, non con il provare per qualcos’altro, ma col provare e basta. Nell’esperienza, sei sì un soggetto, ma ci sei tirato dentro, e insomma l’esperienza ti accade, non sei tu che la fai. ‘Ho fatto l’esperienza’; no, è lei che ha fatto te! Tutte e due le cose anzi, perché c’è stato un gioco tra te e l’esperienza. L’esperienza ha a che fare con lo star dentro. L’esperienza perciò mi sembra aver più a che fare con il sapere che con l’imparare. Il sapere (‘sapio’), l’aver sapore, l’assaporare, l’assaggiare, il saggiare, il mettere alla prova, il misurarsi con: nell’esperire mi pare sia evocata questa gamma di significati. Ci sono esperienze che hanno sapore, ma in cui non impari niente, nel senso che non puoi capitalizzare qualcosa da insegnare ad altri; e si tratta delle esperienze forse più tipicamente umane. Il sesso, per esempio… Prendiamo l’iniziazione sessuale: certo che tu, in qualche modo, impari, diciamo, la tecnica. Ma non è certo la tecnica il sapere fondamentale della sessualità, anzi, se in un nuovo incontro, fatte le prime esperienze, tu pensassi di cavartela con la tecnica, probabilmente finirebbe a sberloni e te li meriteresti. C’è un sapere che non serve ad altro, ma è un sapere che sta lì. Vorrei fare un esempio limite, che è il morire, in cui è molto verosimile che spesso ci sia un sapere, ma non c’è proprio niente da imparare. Tutto questo ha a che fare con l’identità professionale. Penso che sia bene calare le ali, non prendersi troppo sul serio, non pensare che l’identità professionale sia un’arma con cui butti giù gli omini del luna-park, con cui fai dei punti. L’identità non è affatto un rapporto tra identici; l’identità è uno stile nel fare le cose, si tratta di pratiche aperte alla differenza, non di totem… In parole povere, mi sembra che nell’esperienza non ci sia altro da fare che starci dentro. Non si tratta tanto di accumulare saperi che verranno usati per qualche altra cosa, quanto di gustare quell’esperienza lì, sapendo che l’esperienza veramente decisiva non è riproducibile.
GM: E cosa promuove apprendimento collettivo e cosa lo deprime?
AB: Da un lato un fattore di apprendimento può essere la pressione dei problemi: quando non sei capace chiedi aiuto e questo genera sicuramente una disponibilità all’apprendimento. All’estremo opposto, penso che se fai un’esperienza molto buona ti verrà di parlarne. O non sei capace, o qualcosa ti è venuto proprio bene. O ci sono problemi che non sappiamo come accidenti fronteggiare, e allora ci mettiamo in ascolto e ci disponiamo ad affrontarli o a viverli insieme ad altri; o viceversa può darsi che cose venute molto bene possano essere comunicate in quanto tali e quindi fatte proprie da qualcun altro, che proverà a sua volta.
E poi ci possono essere fattori organizzativi. Cosa ci vorrebbe in una scuola perché venissero generalizzate le buone pratiche? Ci vorrebbe un preside che ci metta del tempo, curioso, che abbia voglia di ascoltare e chieda ai docenti di raccontare quello che fanno di buono, facendosi lui promotore di circolazione anche formalmente strutturata di queste pratiche. Cioè ci vuole anche un investimento organizzativo: tempo, risorse. Non però cose gigantesche. L’apprendimento può essere presidiato come qualsiasi altro processo: metti una persona ad occuparsene, in modo che faccia parlare altre persone di quello che sono capaci di fare.
GM: E tra l’esperienza della scuola e l’esperienza della consulenza che contatti trovi?
AB: Ci sono sicuramente molti passaggi tra la consulenza e la scuola, di questo sono sicuro. Avere a che fare con clienti adulti, ti fa poi trattare da adulti anche gli studenti. Da adulti vuol dire nel pieno rispetto della loro storia, convinto che se si comportano da cretini ci saranno delle ragioni, e che se sono bravi si può capitalizzare la loro bravura.
Ci sono travasi anche nell’altro senso, dalla scuola alla consulenza? Non lo so: direi che passa una certa passione conoscitiva, una certa curiosità per gli esseri umani, ma forse questo non ha tanto a che fare con la scuola…
GM: Hai parlato di sapere e imparare; abbiamo usato ‘apprendere’. Forse non abbiamo usato il termine ‘conoscere’…
AB: Apprendere rimanda a tutti e due i campi semantici: da una parte c’è il prendere, il possedere, il far proprio, il tenere, l’accumulare, il capitalizzare che credo sia sostanzialmente illusorio; dall’altra parte però c’è la presa non delle cose ma sulle cose, l’appendersi, il tenersi forte, il metter le mani dentro, e questo ha a che fare con l’esperienza. Invece conoscere… Anche qui ci sono i due usi del termine che aiutano, da una parte il conoscere riguarda la testa, dall’altra l’uso biblico del termine rimanda invece all’esperienza del corpo e quindi ad un sapere non tecnico.
Un’ultima riflessione che ho fatto a proposito dell’esperienza, così te le dico tutte e dopo basta, è che c’è un altro significato del termine, cioè l’esperienza sensibile. Fare esperienza in senso forte non è la stessa cosa che venire a sapere che c’è dell’esperienza, cioè il vedere e l’ascoltare non esauriscono l’esperienza, che è veramente di tutti e cinque i sensi e poi del rifletterci su. Cioè, quel che vediamo e che ascoltiamo perché ce lo dicono altri, non è quello che impariamo perché ci buttiamo dentro invece anche col naso, la bocca, il corpo. Leggere un discorso o ascoltare un discorso dal vivo o tenere un discorso, non è la stessa cosa; chiunque abbia provato a parlare in pubblico sa che non è affatto un’esperienza che riguardi solo la connessione delle idee e delle parole e che non è neppure solo una faccenda di lingua ed orecchio, ma è una questione di fiato, di tremore, di sudore, di stare in piedi, di camminare o stare fermi, di sentire con un coinvolgimento globale chi ti ascolta. Si dice – e penso che sia abbastanza vero – che siamo in presenza di un generale impoverimento dell’esperienza in questo senso, cioè che vi sia una supremazia del vedere sull’ascoltare, e del vedere e dell’ascoltare sugli altri sensi. Mentre penso che ogni identità, e quindi anche un’identità professionale, abbia bisogno di tutte le pratiche, non solo di quelle dell’occhio e dell’orecchio.
GM: E il contesto? Storico, politico, culturale…
AB: Mah… temo di dire banalità, però la varietà delle esperienze quotidiane di un ragazzo o di un bambino oggi, e di un ragazzo o di un bambino delle generazioni precedenti è abbastanza differente. La vita urbana è ricchissima di stimoli, però di stimoli che privilegiano alcune sfere dell’esperienza a discapito di altre. I miei colleghi di educazione fisica a scuola dicono che in prima superiore arrivano anche ragazzi che non sanno tirare un sasso, correre, saltare. Certo non tutti, ci mancherebbe: ci sono ragazzi che fanno sport a livelli alti; però alcuni gesti elementarissimi che derivavano da un altro universo di esperienze sono impoveriti. Se si va dietro a questi pensieri ci si scoraggia. Non so, mi sembra che sia tutto molto aperto e indeciso… Anche perché al mondo non ci siamo solo noi. Così da un lato abbiamo la sensazione di vivere in un disastro già in corso, dall’altro questa è la realtà che ci è data… E poi forse viviamo in un disastro, ma ci sono anche speranze. Il lavoro che faccio mi piace, ottengo risultati, mi sembra che i cambiamenti accadano, sicché il contesto mi fa dire che speranze ce ne sono ancora.
GM: Dai, un metafora sull’apprendere dall’esperienza.
AB: Non sono tanto bravo… Mi viene in mente Nietzsche, quando parlava delle metamorfosi dello spirito che diviene cammello, quindi leone e infine fanciullo. Io non sono mai uscito dallo stadio del cammello.
Grande! Come al solito, Preside, grazie.
Grande, come al solito, Preside!
domani me la porto in treno mentre viaggio verso Roma e tra un cambio e l’altro, sperimentando la velocità delle direzioni e la staticità dei sedili, farò il gioco del fare e del pensare, appiccicati come l’ombra e la luce! grazie AndreaGraziano!
vittorio
Un’intervista molto interessante, ricca di stimoli e di spunti per la riflessione.
Leggere questa intervista e’ un’esperienza.
E Andrea Bortolotti mi sembra una di quelle persone che se hai la fortuna di incontrare nella vita ti da’ veramente tanto.
Dopo 13 anni ancora mi chiedo ” avro’ imparato a fare l’assistente sociale?”
Ma l’esperienza più bella vissuta fino ad oggi e’ quella di accompagnare mio figlio nelle sue prime esperienze e speriamo che Dio me lo consenta più a lungo possibile!!!