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Pensieri, esplorazioni, ipotesi. Un confine incerto tra personale e professionale.

Crisi 2/2 (scheda di sintesi-commento) #psicosociologia

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Non è agevole guardarsi mentre ci si dibatte nelle crisi

Nel preparare questo secondo post oltre a riprendere ancora più in sintesi i principali passaggi della voce Crisi curata da F. Giust-Desprairies (pp. 98-107) nel Dizionario di psicosociologia, curato da J. Barus-Michel, E. Enriquez e A. Lévy, Cortina nel 2005 (2002), ho tenuto presenti:

  • Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, 2011.
  • Sebastian Gjerding, “Separati dalla crisi”, Internazionale 986, 08 febbraio 2013, pp. 55-57.
  • Reinhart Koselleck, Crisi. Per un lessico della modernità, Ombre corte, 2012 (2011); Mauro Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, 2009;
  • Nouriel Roubini, Stehen Mihm, La crisi non è finita, Feltrinelli, 2010 (2010)
  • Michel Serres, Tempo di crisi, Bollati Boringhieri, 2010 (2009);
  • Mauro Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, 2009.
  • Alain Touraine, Dopo la crisi, Una nuova società possibile, Armando, 2012 (2010).
  • due articoli che provano fornire indicazioni per mantenersi capaci di affrontare e riconsiderare eventi critici
    • M.T. Crichton, G .R., T. Cameron Kelly, “Enhancing organizational resilience through emergency planning: learning from cross-sectorial lessons”, in Journal of contingecies and crisis management, 17-1, 2009, pp. 24-37;
    • K. Roberts, “Book review essay managing the unexpected: six years of HRO-literature reviewed”, in Journal of contingecies and crisis management, 17-1, 2009, pp. 50-54.

La logica di questo secondo post è la seguente: provare a sostenere che la crisi non è un evento accidentale e inesorabile (se così fosse sarebbe inutile curarsene), e provare a segnalare alcune possibili strategie per fronteggiare la crisi. La discussione ovviamente è aperta e le osservazioni (critiche incluse) benvenute.

In estrema sintesi

La crisi erode invisibile, poi irrompe. Confusione, tensioni e conflitti si fanno incontrollabili e solo grazie a cambiamenti radicali lo stato di disordine potrà (forse) venire superato. La crisi può essere avvertita come rischio, paralizzando molti e mobilitando alcuni, soggetti, gruppi o organizzazioni.
Il manifestarsi dello stato di crisi è preceduto da una fase di incubazione. Vi sono segnali di ritiri, di disinvestimenti, mascherati da coesioni e armonie apparenti. Le figure di autorità sembrano esprimere unità e rappresentatività, che però si rivelano fragili, interpretabili come superficiali chiusure.
Un evento interno o esterno, anche insignificante, altera gli equilibri e annuncia la crisi. La sfiducia afferra chi fa parte dell’organizzazione, si innescano conflitti, le relazioni perdono di tenuta, dilaga un clima minaccioso, alle figure di autorità e ai loro discorsi non viene attribuita legittimità.

C’è rottura, dissoluzione, e frammentazione delle unità sociali in cui ciascuno poteva trovare riferimenti identitari, senso e riconoscimento.
p. 101
Florence Giust-Desprairies, “Crisi”, in Dizionario di psicosociologia, curato da J. Barus-Michel, E. Enriquez e A. Lévy, Cortina nel 2005 (2002), pp. 98-107.

Alla catastrofe repentina o estenuante fa seguito un fase o di disfacimento o di ripresa, prenderà corpo un nuovo progetto e un nuovo ordine.
Nella crisi disagio e confusione investono i soggetti, che sentono di perdere il controllo e sperimentano sentimenti di minaccia, di angoscia e di perdita di identità. Si disarticola l’operatività delle unità funzionali. Si presentano conflittualità non mediabili, viene meno la capacità di immaginare adattamenti, vie d’uscita, prospettive: prevale un disordine mortifero. Si paralizzano la capacità di prendere decisioni, di costruire significati. La crisi si presenta come travolgente e distruttiva: perdono di valore regole, simboli, riferimenti sociali e istituzionali. Si percepisce una inarginabile connessione fra elementi privi di valore che fanno precipitare la capacità di dare senso all’agire.
I sistemi non funzionano e la realtà si fa ingovernabile. Tutto viene messo in discussione, i progetti perdono di valore, irrompe un sentimento di catastrofe e di vuoto, le percezioni identitarie si frantumano e la capacità di costruire legami di gruppo si atrofizza.
In queste condizioni si aprono possibilità per interventi secondo la prospettiva psicosociologica che mira promuovere spazi di rielaborazione e presa di contatto con la complessità, di recupero di significati ed esperienze. Si attivano momenti in cui i conflitti possono essere esplicitati senza che prevalga la distruttività, spazi per ripensamenti riguardo ai modelli di pensiero e di azione, occasioni per ricostruire riferimenti simbolici e accordi operativi, ricomposizioni e nuove progettualità capaci di mobilitare investimenti.

Crisi (considerazioni e commenti)

La crisi è Alien?

Le crisi hanno un andamento intrinseco interno. Non te ne accorgi, anche se avresti potuto accorgertene. Quasi non le vuoi vedere… Rileggendo gli appunti dei paragrafi precedenti mi sono detto: “Vuoi vedere che se si raccontano le dinamiche della crisi come se fossimo spettatori che guardano comodamente seduti in poltrona, vien fuori che la crisi è un mostro alieno, che si genera da sé (un’araba fenice maligna), un meccanismo perverso che si autoproduce (oltre che autoalimentarsi)? Vuoi vedere che la crisi è altro da noi e che noi ci possiamo fare poco?

La maggior parte delle crisi ha inizio con una bolla, quando il prezzo di una particolare attività aumenta oltre il suo valore fondamentale sottostante. Questo tipo di bolla è spesso associato a un’eccessiva accumulazione di debito, poiché gli investitori prendono a prestito per speculare sul boom. Non a caso le bolle finanziarie sono spesso accompagnate da una crescita smisurata dell’offerta del credito, la quale potrebbe essere dovuta a una regolamentazione e a una vigilanza permissive o alle politiche monetarie espansive di una banca centrale. Altre volte una bolla speculativa si sviluppa prima di un boom creditizio, semplicemente perché le aspettative di un aumento dei prezzi futuri sono tali da favorire un aumento autoindotto dei prezzi dell’attività in questione. Un’innovazione tecnologica di grande portata – l’invenzione delle ferrovie, per esempio, o la creazione di Internet – può creare l’illusione di un nuovo mondo meraviglioso caratterizzato da un’economia in rapida crescita, generando così la bolla iniziale. […] Indipendentemente dalla maniera in cui il boom ha origine, o dai canali attraverso i quali gli investitori vi partecipano, tutto l’interesse speculativo si concentra su un’attività che diventa particolarmente ambita. Potrebbe trattarsi di qualsiasi cosa, ma i casi più frequenti riguardano la speculazione nei mercati azionari, residenziali e immobiliari. Appena il prezzo dell’attività bramata schizza alle stelle, gli ottimisti cercano febbrilmente di giustificare questa sopravvalutazione; messi di fronte alle prove delle bolle scoppiate in precedenza, sostengono che “questa volta è diverso”. Uomini e donne intelligenti affermano – e credono – che l’economia sia entrata in una fase in cui le regole del passato non valgano più. La recente bolla immobiliare negli Stati Uniti ha seguito questo copione con straordinaria fedeltà: si diceva che gli immobili fossero “un investimento sicuro” che “non perde mai di valore” perché “i prezzi delle case non scendono mai”. Discorso analogo veniva fatto a proposito dei complessi strumenti finanziari creati a partire da migliaia di mutui. Da questo punto in poi i disastri finanziari seguono un percorso prevedibile. Grazie alla disponibilità di credito sempre più conveniente e abbondante acquistare l’attività tanto desiderata diventa facile; la domanda aumenta e supera l’offerta, di conseguenza i prezzi salgono. Questo però è appena l’inizio. Poiché le attività alla base della bolla finanziaria possono fungere di norma da garanzia collaterale, e dal momento che il valore collaterale aumenta, uno speculatore può prendere a prestito somme sempre maggior ogni giorno che passa. In altre parole, i prenditori possono sfruttare il meccanismo della “leva finanziaria”.
pp. 29-31
Nouriel Roubini, Stehen Mihm, La crisi non è finita, Feltrinelli, 2010 (2010)

Fin qui come si è innescata la crisi economica nella quale ormai da più di cinque anni viviamo. Su quello che succede poi in piena crisi: l’effetto domino, il tonfo finale, la tenuta… proverò a parlarne in un altro post. Adesso mi pongo due domande? Quali responsabilità per le crisi? Quali dinamiche?

Non sono un economista. La rapida analisi del brano che propongo punta a mettere in luce la logica argomentativa dei due autori: le crisi non sono avvenimenti eccezionali, non eventi catastrofici occasionali, ma fenomeni ricorrenti. Eppure questa denuncia essenziale lascia in ombra un punto: dietro agli inesorabili meccanismi sono rintracciabili responsabilità? Vi sono soggetti che decidono i loro comportamenti (provando, provandoci, sottraendosi), e che potrebbero fare altrimenti? Un ingorgo, a causa di una nevicata eccezionale, è una crisi nel traffico metropolitano: vi è la certezza che la più parte degli automobilisti non avrebbero potuto scegliere diversamente?

In che modo, i meccanismi che Roubini e Mihm vorrebbero svelare, incorporano le responsabilità nella crisi? La crisi produce sé stessa o si possono individuare soggetti o fattori (co)responsabili? Se le crisi sono strutturalmente periodiche allora non resta che attenderle e attendere che passino. Se le crisi sono anche il prodotto di scelte, di sviste, di sviamenti, allora, forse, è possibile intervenire. Se la crisi è Alien, noi siamo buoni e la crisi è mostruosa, ed ecco servito un modo di vedere e di stare nelle cose che non mi pare sia di grande aiuto. Né a prevenire, né a sfilarsi.

Riconoscere la crisi, provare a precisarne contorni ed effetti, non farsi travolgere dalla retorica della crisi è già un modo per non rinunciare e non soccombere. Nella citazione estratta dal testo di Roubini e Mihm un aspetto viene enfatizzato la dinamica irreversibile e autopoietica della crisi. Si tratta di effetti sistemici che si combinano fra di loro. Nel corso della crisi sembra impossibile intervenire. Se sarà possibile (se lo sarà) lo vedremo solo a posteriori. Davvero non c’è spazio per l’azione dei soggetti, dei gruppi, delle organizzazioni, dei loro vertici, delle istituzioni, della politica?

Certo si potrebbe sostenere che le crisi economiche hanno origini, andamenti ed esiti non equiparabili alle crisi organizzative, o almeno che l’ipotesi che le dinamiche possano essere confrontate è una assunzione da dimostrare. Come abbiamo visto nel precedente post le crisi hanno tempi di incubazione più o meno lunghi, eventi scatenanti (la letteratura scientifica sulle catastrofi ha segnalato il ruolo degli inneschi che attivano le crisi). Più delicata la questione delle responsabilità. Cercare se vi siano responsabilità non significa cercare colpevoli o capri espiatori, anche se è un attimo correre il rischio.

Chi è Alien?

Un’ipotesi più precisa sulle responsabilità della recente crisi economica ci viene offerta da Luciano Gallino nel volume Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi (Einaudi, 2011)

La crisi economica apertasi nel 2007 ha avuto come causa primaria i mutamenti dei rapporti di potere politico-economico che dagli anni ’80 in poi hanno facilitato l’ascesa della finanziarizzazione, la deregolazione dei movimenti di capitale e l’affermazione di altri aspetti dell’ortodossia neoliberale: mutamenti rivelati perfino dall’ONU. Concause di notevole peso sono state la irresponsabilità sociale, l’incompetenza e l’avidità di una parte significativa degli alti dirigenti di società finanziarie e non finanziarie, dei grandi proprietari, dei gestori a capo di fondi e patrimoni; personaggi che all’epoca del finanzcapitalismo governano di fatto l’economia e la politica del mondo. In totale si tratta appena di una decina di milioni di individui. Al di là delle loro intenzioni o dei loro convincimenti etici, mediante le loro strategie finanziarie questi pochi milioni di individui hanno inflitto e continueranno a infliggere per lungo tempo rilevanti costi umani a miliardi di altri. Nella posizione che occupano, sarebbe arduo per loro agire diversamente: come premia a dismisura chi vi si conforma, così la logica endogena del finanzcapitalismo punisce severamente le azioni devianti. Resta il fatto che meno dello 0,15 per cento della popolazione mondiale appare essere nelle condizioni di infliggere a gran parte del 99,85 per cento restante i costi che qui sotto si riassumono: non è questo l’ultimo dei motivi per asserire che la civiltà-mondo reca in sé profondi segni di degrado.
p. 107
Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, 2011.

La prospettiva di Luciano Gallino è chiara. Vi sono poteri così potenti da superare la capacità di azione e di regolazione degli Stati (così forti da condizionarla), poteri in grado – date le regole economiche – di sovvertire il funzionamento dei mercati e di produrre shock planetari, che si protraggono nel tempo.

L’identificazione di interessi in gioco, attori che prendono posizione, azioni intenzionali non contrasta con la ricerca delle dinamiche. Semmai rende il modello esplicativo più ricco (e complesso). Ammettere poi che vi sono responsabilità identificabili (individuali, di gruppo, organizzative) che si collegano a processi articolati apre alla possibilità di prevenire, intervenire nello svilupparsi delle crisi, e a posteriori con modalità non solo riparative ma (chissà) proattive. E questo è un aspetto al quale non ho trovato accenni nella voce “Crisi” del Dizionario di psicosociologia.

Far fronte alle crisi

[Ecché, non posso dare la mia ricetta?]

Qualche giorno fa nel provare a descrivere le condizioni di crisi che una organizzazione sociale sta attraversando, i componenti del Consiglio di Amministrazione hanno fatto ricorso a termini che mi sembra possano riassumere come si sta in una condizione di crisi, quando tutto si sbriciola: la crisi è disordine, disorientamento, dispersività, sensazione di dovere gestire scorie, macerie, residui della crisi, pressione verso (opportunità di) cambiamenti.
Si può agire per non lasciarsi travolgere? E cosa si può fare?

Scalfire la retorica della crisi

“Crisi” è un mantra. Che ci sia troppa ‘crisi’ nei discorsi che circolano? Che ci siano ragioni – nell’immediato non evidenti – per un uso così massiccio del termine? Che “crisi” sia una parola socialmente accettabile per significare difficoltà e ansie poco sondate o opportunamente occultate? La crisi può essere una condizione imbarazzante da dover esplicitare – un segnale esplicito di inadeguatezza –. Ma è pur vero che informalmente molti ammettono usi opportunistici del termine e degli stati di crisi dichiarati [in una parola chiarissima si concentrano infinite ragioni: ciascuno può metterci del proprio e la forza persuasiva del termine si consolida addensando e risignificando le intenzioni di chi si serve del termine].

Accettare che le cose saranno (decisamente) diverse

Se una crisi non è una difficoltà temporanea ma gorgo e discontinuità, allora…

Se viviamo una crisi, nel senso forte e medico del termine, allora non c’è nessun ritorno indietro. I termini rilancio o riforma sono fuori luogo.
p.11
Michel Serres, Tempo di crisi, Bollati Boringhieri, 2010 (2009).

Forse la prima concreta azione in tempi e condizioni di crisi è lasciar perdere le nostalgie, accettare che le cose saranno diverse e non immediatamente prefigurabili, che cambieranno i riferimenti, i paradigmi, gli schemi. Le crisi ci segnalano che molto probabilmente non saremo più gli stessi (anche se saremo sempre noi). Le crisi chiedono riposizionamenti, nuovi progettare e l’applicarsi alla costruzione di cambiamenti possibili. Pena una struggente e protratta sofferenza.

Pensarci prima (prevenire è meglio che cercare di curare)

Riprendo il brano che segue da un articolo uscito qualche mese fa su Internazionale. Il giornalista racconta di donne danesi che hanno mariti o compagni greci e di come queste coppie affrontino la crisi economica che in Grecia ha prodotto il 25% di disoccupazione e tagli dei salari che raggiungono il 50%.

L’unità della famiglia è un tratto positivo del paese sul quale insistono tutte le donne del gruppo. In tempi di crisi, quando il conto in banca è a secco e il sussidio di disoccupazione è terminato, sono i risparmi della suocera che aiutano a pagare le bollette. E non sono soldi presi in prestito. Sono un regalo. “La coesione della famiglia è più forte qui che in Danimarca. Qui c’è a famiglia, in Danimarca c’è il welfare, il che significa che se qualcuno si trova in difficoltà le persone che gli sono più vicine non devono intervenire. In Grecia, invece, è la presenza della famiglia a darti la sensazione che se cadi c’è qualcuno pronto ad aiutarti”, dice Berit Balzer. Una famiglia forte è l’unica difesa dal disfacimento dello stato. Certo, lo stato era inefficiente già prima della crisi, però negli ultimi tempi sono aumentate le cose che non funzionano. Gli scioperi sono sempre più frequenti e, con la busta paga praticamente dimezzata, molti dipendenti pubblici non hanno più una gran voglia di lavorare. Ma la corruzione era diffusa anche prima che cominciassero i problemi economici: non era insolito, per esempio, pagare sottobanco il medico di un ospedale per farsi curare. “Ognuno ha la sua piccola parte di responsabilità nella crisi: tutti, in un modo o in un altro, sono stati coinvolti nella corruzione. Ma la colpa per la maggior parte dei soldi che sono andati perduti o sono stati rubati è dei politici”, dice Dimitris, che nel frattempo si è seduto sul divano. “Non era difficile capire che le cose non andavano così bene, ma siccome eravamo tutti dentro a un sistema corrotto, abbiamo trovato un modo per fare egualmente la bella vita, senza preoccuparci troppo. Quando poi abbiamo dovuto affrontare i problemi, ormai erano diventati troppo grandi per poterci fare qualcosa”, continua.
p. 56
Sebastian Gjerding, “Separati dalla crisi”, Internazionale 986, 08 febbraio 2013, pp. 55-57.

Per non generare fraintendimenti: non sto squalificando il welfare scandinavo né tessendo le lodi delle capacità delle famiglia mediterranea di essere l’intervento di ultima istanza. Non è questo il punto. Costruire reti di sicurezza appare essere l’indicazione sottostante alla fenomenologia della sopravvivenza descritta dalle mogli danesi dell’articolo di Internazionale. Senza reti non si affrontano situazioni avverse. Anche se le reti hanno una loro capacità di carico, che viene messa alla prova dalle crisi. Quali reti? Quali attrezzature? Quali difese?

Noto poi che torna la questione delle responsabilità, delle rappresentazioni colpevolizzanti, degli immaginari che cercano (forse con ragione) élite a cui assegnare (buona parte delle) colpe. Interessante a questo proposito la battuta di chiusura Dimitris: “Non era difficile capire che le cose non andavano così bene, ma siccome eravamo tutti dentro a un sistema corrotto, abbiamo trovato un modo per fare egualmente la bella vita, senza preoccuparci troppo. Quando poi abbiamo dovuto affrontare i problemi, ormai erano diventati troppo grandi per poterci fare qualcosa”, inclusa la possibilità di cambiare per tempo le élite politiche al potere. La responsabilità in questo caso si fa corresponsabilità, di grado inferiore (un tentativo di minimizzare e autossolversi).

Non smettere di pensare e di conoscere (anzi, se possibile intensificare la ricerca)

Michel Serres (2010) propone un’alleanza fra le scienze e indica la ricerca, la produzione di conoscenze, la capacità di realizzare collaborazioni interdisciplinari come le vie per affrontare le crisi che si susseguono e il rischio incipiente di una crisi distruttiva per il mondo. Michel Serres chiude il suo pamphlet con due impegni che in sintesi impegnano sé stesso (secondo la tradizione della morale cartesiana) a non mettere le conoscenze, le scoperte, le invenzioni al servizio della violenza, della distruzione, delle crisi distruttive, degli interessi economici e militari: le scienze in dialogo fra loro avrebbero il compito di superare la scissione che si è aperta tra il sapere e l’etica (pp. 76-79). Al di là del linguaggio rizomatico e spumeggiante, Michel Serres sembra suggerire che l’uscita dalla crisi in un lavoro di ricerca che ci porti fuori dalla condizione di spettatori del proprio destino.

Attrezzarsi per fronteggiare la molteplicità di opzioni, la contrazione dei tempi e l’incertezza costituisce anche per Alain Touraine  (2012) l’unico modo per fronteggiare la crisi. Ma il compito accento si sposta sulle dimensioni valoriali e sulla capacità di pressione che gli individui, complici le tecnologie (chiamate in causa con una prospettiva salvifica) sarebbero in grado di fare per ottenere una “ricostruzione dei rapporti tra gli attori economici, la formulazione di loro valori comuni e di nuovi interventi pubblici” (p. 183).

Ricette che avrebbero senso proprio perché la crisi ha raggiunto uno stadio di non ritorno e di permanenza, perché è il  modo di essere del mondo, contratto ed esposto al rischio della autodistruzione. Due perorazioni, fiduciosa la prima, disillusa la seconda, entrambe sul registro dell’evocazione etica e della sfiducia verso l’economia e la politica, che torna a chiamare in causa l’individuo, il cittadino, il soggetto.

Meglio mindful e resilienti

Le organizzazioni consapevoli e affidabili sembrano impegnate a lavorare sul piano della cultura e dei funzionamenti organizzativi affinché i gruppi e le strutture:

  • Sviluppino attenzione rispetto al rischio di errori o fallimenti [non dormire sugli allori],
  • Evitino interpretazioni semplificati [meglio promuovere varietà di punti di vista], evitando di sottostimare incidenti e risultati avversi.
  • Mantengano l’attenzione sulle attività e sulle esperienze che conducono [cosa stiamo facendo?],
  • Si impegnino per sviluppare capacità di funzionamento anche in condizioni avverse e capacità di recupero [avere piano b], mantenendosi preparati per situazioni di emergenza, non facendo mancare risorse e piani di azione da attivare in situazioni di crisi,
  • Riconoscano il valore delle competenze e non si affidino ciecamente alle gerarchie, sia mantenendo fluide le comunicazioni con l’esterno, sia evitando risposte meccaniche e reattive.

Nelle indicazioni che provengono dagli studi sulla mindfulness e sulle organizzazioni affidabili trovo diverse consonanze (seppure espresse con linguaggi differenti) con le indicazioni provenienti dalla prospettiva psicosociologica citata nel primo post.

Forse non tutto è perduto.

3 comments on “Crisi 2/2 (scheda di sintesi-commento) #psicosociologia

  1. luca
    13 May 2013

    Pensavo di mettere il vostro logo sul nostro sito con il vostro link per dar modo ai nostri visitatori di conoscere il vostro blog. Cosa ne pensi?

    • Mainograz
      13 May 2013

      Ciao Luca,
      ti posso scrivere una email?
      Mandami per favore il tuo indirizzo email.

      Grazie,
      Graziano Maino:-)
      mainograz@mac.com

  2. laurapapetti
    2 May 2013

    Grazie per questi post…davvero intensi, molteplici spunti.

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