C’è una scrittura essenziale che non riesco a sostituire (e neppure credo ne valga la pena). Nel lavoro con i gruppi – che vi partecipi o che abbia un ruolo di facilitazione – è quasi impossibile non scrivere: a mano e utilizzando fogli di carta, o pian piano con i tablet.
In quanti modi lo scrivere è una azione che organizza? Ne ho notati tre e li segnalo per provare a considerare gli effetti della scrittura a mano (e la sua relativa insostituibilità).
Due micro episodi e alcune considerazioni.
Parto da un rilievo ricevuto qualche anno fa. Nell’ambito di una ricerca, stavo raccogliendo un’intervista e mentre registravo, prendevo appunti con il portatile. Ad un certo punto la persona intervistata mi ha detto: “Lo sa che mi disturba questo schermo? Non vedo quello che scrive”. Ora, quale che fossero le ragioni della persona che stavo intervistando, la notazione mi ha fatto pensare al duplice significato di schermo. Lo schermo è il video del portatile, lo schermo è una barriera che nasconde. Lo schermo mostra a chi guarda e impedisce la vista a chi sta di fronte. Da quella volta, se mi capita di intervistare qualcuno e mi trovo ad utilizzare il computer, cerco di costruire un setting che mi veda collocato in posizione che consenta all’intervistato di gettare lo sguardo su quello che appunto.
Aggiungo una seconda esperienza personale. All’inizio del mio percorso professionale ho frequentato un laboratorio di formazione. Ricordo che mi colpiva moltissimo come la conduttrice – al termine di ogni sessione (per una pausa o per l’intervallo del pranzo) – chiudesse la cartelletta che conteneva gli appunti e la portasse via con sé. Non solo usciva la persona che guidava il gruppo, ma con lei i suoi appunti. E mi sembrava che così non rimanesse nessuna traccia del lavoro in corso (ricordo un’emozione ambivalente: mi sembrava che la conduttrice ci lasciasse soli, liberi e abbandonati).
La scrittura nel corso della consulenza è molto importante. Mi capita di notare che le persone che incontro mi osservano e guardano a quello che faccio. Non solo le parole del consulente sono oggetto di attenzione. Il cliente non solo ascolta ma mi osserva. E i più diversi elementi vengono investiti di significato. La scrittura, nel corso degli incontri di lavoro, è molto importante. Non solo perché è il modo per fissare le idee, ma perché contribuisce a creare uno spazio di lavoro. L’azione dello scrivere segnala uno spazio di pensiero esterno, visibile (e a volte condivisibile) fra i soggetti coinvolti. Uno spazio che è già non-me e un non-ancora-noi (Winnicott, 1974), come se i pensieri non vivessero solo nelle dimensione della parola (esteriore ed effimera) o interiore (nella mente, nel ripensamento, nella riflessione), ma trovassero accoglienza in uno spazio intermedio di esperienza. Per ottenere che la scrittura attivi un effetto transizionale è necessario che gli appunti non siano una estensione funzionale del consulente, ma uno spazio di lavoro fra le persone che partecipano al momento di lavoro. In questo modo la scrittura determina uno spazio intermedio, un luogo abitato da idee, desideri, ipotesi, preoccupazioni, irritazioni, pensieri e paure, che via via prendono forme di testi, di note, di appunti. Cerco di fissare i passaggi chiave delle narrazioni, di utilizzare la scrittura per dare spazio al raccontare: se scrivo o aspetto di scrivere segnalo una disponibilità all’ascolto, se mi fermo introduco una pausa, una sospensione, quasi una domanda. Per questo cerco di mettere il foglio in una posizione che mi consenta di scrivere agevolmente e permetta a chi partecipa di buttare un occhio, e se vedo che c’è interesse a seguire rendo disponibili gli appunti [nell’operare così c’è un limite e una accortezza di cui tratterò in un altro post].
Scrivere non è solo produrre testo. Per quanto sincopato, siglato, abbreviato, campionato come accade negli appunti che funzionano come mappe dei pensieri. A volte è utile fare degli schemi, non solo scrivere, piuttosto disegnare, tracciare mappe, disporre il testo nello spazio.
Sul foglio appoggiato sul tavolo a volte scrivo poche parole, qualche appunto, per appoggiare i ragionamenti, per enucleare le questioni, per collegarle fra loro. Non si tratta di appunti che primariamente mirano a verbalizzare quanto viene detto, non attribuisco loro il compito di tenere traccia dei ragionamenti (per questo sono disordinati, sovrascritti, se non pasticciati). Il loro compito è ancillare alla conduzione. Le persone li guardano, alzano gli occhi, mi guardano e si guardano. E tornano a pensare. A volte indicano una parola o i loro volti esprimono incertezza o dubbio. Questi appunti servono a fissare – separandoli o congiungendoli – i temi che si stanno affrontando, che man mano emergono, per distinguerli e tenerli insieme nello spazio del ragionamento e del confronto. Non di rado, verso la fine dell’incontro uso questi appunti per ricapitolare e per segnalare le questioni aperte, le cose che si potrebbero fare, su cosa conviene tornare a ragionare. Sono appunti di facilitazione della conduzione dell’incontro. Servono ai partecipanti e servono a me, sono appunti-sassolini-nel-bosco, per non perdermi e ritrovare la strada. A volte, per concludere, se ho sotto mano una matita o una penna di un altro colore, sottolineo o cerchio alcune parole chiave. E succede che chi partecipa all’incontro, alzandosi, a volte con un leggero imbarazzo chieda di poter prendere gli appunti [allora scatto una foto agli appunti prima di consegnarli].
Altre volte sono necessarie scritture verticali per costruire progressivamente quadri concettuali, per disporre e mettere in relazione fra loro elementi diversi, per abbozzare proposte di lavoro, per cercare di dare forma a qualche pensiero comune, attraverso approssimazioni progressive. Aiutano i flipchart, le lavagne, i fogli A4 appesi con il nastro adesivo. Tutto quello che consente di esprimere e sostenere i processi elaborativi aiuta. Anche in questo caso di norma chi conduce governa il processo di scrittura, chiede indicazioni, raccoglie assensi e incoraggiamenti, ma mantiene il potere della scrittura. Accade, a volte che qualcuno fra i partecipanti, spinto dall’urgenza si alzi, prenda in mano (o dalle mani del conduttore) il pennarello o il gesso e intervenga direttamente sul testo e sugli schemi in costruzione. È un segnale? Si stanno toccando sensibilità, si stanno attivando reazioni? Quando capita me lo chiedo e cerco di capire se sono riuscito ad aprire varchi di partecipazione diretta o se ho indotto tensioni che devono trovare espressione.
Quest’anno due gruppi di ricerca, nell’ambito del corso di Psicosociologia dei gruppi e delle organizzazioni hanno utilizzato due tecniche di conduzione per sondare le rappresentazioni organizzative di alcuni componenti dei gruppi dirigenti e degli staff operativi che li affiancano in una organizzazione di rappresentanza provinciale e in una impresa sociale. Nel primo caso il gruppo di ricerca ha chiesto alle persone intervistate di disegnare l’organigramma attuale dell’organizzazione (ispirandosi alla Nominal Group Technique). Nel secondo caso, rifacendosi alla tecnica del Life Family Space, hanno chiesto alle persone intervistate di tracciare un cerchio e di collocare gli interlocutori dell’impresa sociale all’interno e all’esterno dello spazio delimitato. Queste rappresentazioni sono state utilizzate per costruire una mappa delle rappresentazioni sugli assetti e sul funzionamento organizzativo. Colpisce, nell’esame delle produzioni, la varietà di schemi, i differenti disegni delle configurazioni e delle relazioni fra i soggetti in gioco, la divergenza delle rappresentazioni. Un uso più esteso delle tecniche consiste nel lavorare con le stesse persone che hanno prodotto i disegni, ingaggiandole in un confronto esplicativo e riflessivo delle loro rappresentazioni. Per realizzare questo passaggio sono richieste condizioni di disponibilità e di fiducia per sviluppare confronti evolutivi.
Quando dall’esame della trasposizione in testo/disegno nascono scambi e riflessioni che aiutano i gruppi a pensare, sento che queste esperienze mi introducono nella scrittura come a uno spazio transizionale per costruire incontri utili a chi vi partecipa (Mannoni, 1982).
Scorrendo alcuni libri sull’ICT e sui cambiamenti digitali in corso, si ha l’impressione che al crescere dell’entusiasmo cresca di pari passo il numero delle voci scettiche se non catastrofiche. Si assiste spesso a discussioni che spingono verso la divaricazione dei punti di vista. Non si spegne il dibattito fra utopisti e distopisti. Ma – sia nelle visioni trionfalistiche, sia in quelle rassegnate al peggio – si trovano analisi che aiutano a vedere rischi e opportunità concrete (Menduni e altri, 2011; Rheingold, 2013; Riva 2010; Zafra, 2012).
La scrittura 2.0 non elimina la scrittura manuale, ma la trasforma. Se un computer portatile con il suo schermo introduce una barriera nel gruppo che lavora intorno ad un tavolo, un tablet appoggiato sul piano ricorda da vicino un foglio di carta. E a volte un quaderno viene maneggiato in modo da segnalare che fa parte di una sfera personale indisponibile alla situazione sociale nella quale chi scrive è immerso. Che sia un monitor o una cartelletta tenuta a ridosso del corpo, il messaggio mi sembra si equivalga: “questa scrittura mi appartiene, questa porzione di esperienza non è accessibile”. E facendo parte della sfera personale, la scelta di condividere o meno le proprie scritture mentre vanno sviluppandosi mi pare assolutamente legittima. Nella pragmatica dello scrivere mi sembra di poter rintracciare movimenti di apertura o di chiusura verso la situazione.
Possiamo usare un foglio di carta o uno smartphone per prendere appunti. Con il primo supporto il gesto è comprensibile perché iscritto nella nostra cultura: se ascolto una persona che parla e il mio corpo, i miei atteggiamenti, la mia scrittura segnalano che seguo e mi appunto quello che sta dicendo, i presenti colgono l’impegno a fissare quello che viene detto. Ma le intenzioni scrittorie non sono sempre incontrovertibili, possono essere chiare in relazione ai contesti in cui la pratica si inserisce. Ci sono appunti che vengono presi con l’aria di sfidare. Appunti che vengono presi con l’impegno a non lasciarsi sfuggire una sola parola. Appunti che vengono presi con l’atteggiamento di chi soppesa e seleziona quel che viene detto e appunta solo ciò che ritiene utile. Atteggiamenti diversi nel modo di scrivere e di porsi connotano il nostro modo di stare nella situazione lavorativa.
Si possono prendere appunti con lo smartphone. Ma il gesto potrebbe venire equivocato. Chi parla e chi ascolta potrebbe pensare che chi sta scrivendo non segue, e si distrae giocando o che si applica ad altro. Potrebbe non essere così. Ma se il comportamento non viene esplicitato l’uso del mezzo non rende evidenti le intenzioni, semmai confonde. Scrivere può essere un gesto che segnala attenzione relazionale e disponibilità collaborativa, ma ciò deve essere intelligibile ai presenti. Il mezzo interviene nel marcare la scrittura.
Il nostro scrivere, le situazioni nelle quali scriviamo, e come lo facciamo tradiscono intenzionalità comprensibili o immaginabili (ma non chiare). Scrivere non è solo un gesto individuale. Si colloca nella socialità e contribuisce a produrla.
Gozzoli C., Tamanza G., L’analisi metrica del disegno, FrancoAngeli, 1998.
Mannoni O., “La parte del gioco”, in AA.VV., Il pensiero di D. W. Winnicott, Armando, 1982 (1977), pp. 109-118.
Rheingold H, Perché la rete ci rende intelligenti, Cortina, 2013 (2012).
Riva G., I social network, Il Mulino, 2010.
Menduni E., Nencioni G., Pannozzo M., Social Network. Facebook, Twitter, YouTube e gli altri: relazioni sociali, estetica, emozioni, Mondadori, 2011
Winnicott D.W., “Oggetti transizionali e fenomeni transizionali” (1951), in Dalla pediatria alla psicanalisi, Martinelli, 1974 (1958), pp. 275-290.
Zafra R., Sempre connessi. Spazi virtuali e costruzione dell’io, Giunti, 2012 (2010).
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