In questi giorni sto lavorando con un collega per una società pubblica, con sedi in diverse città della Liguria, alla definizione delle “linee strategiche di valorizzazione del personale”.
“Linee strategiche di valorizzazione del personale” è un nome un po’ altisonante per indicare un documento che riformula gli indirizzi e le politiche del personale. Un documento dalla traiettoria triennale, coincidente con la durata in carica dell’organo di governo, frutto di un percorso di confronto con dirigenti, quadri intermedi e rappresentanti dei lavoratori. Un documento che – prima della fine dell’estate – dovrà essere vagliato dall’amministratore delegato e poi approvato dall’intero consiglio di amministrazione.
Tra le diverse questioni interessanti, a volte intricate (con qualche spunto surreale) e a volte stratificate (a prima vista intrattabili), si è presentata quella della mobilità interna e della conseguente gestione degli avvicendamenti del personale collocato in posizioni operative, di coordinamento e di direzione.
A proposito di mobilità e avvicendamenti riprendo alcuni spunti emersi dal giro di conversazioni consultive.
Il termine mobilità indica gli spostamenti interni (intraorganizzativi) o esterni (da e verso altre organizzazioni). Quando si ragiona di mobilità l’accento cade sui movimenti da una collocazione all’altra:
“… lasci un posto di lavoro, una posizione, un ruolo e vai a ricoprirne un altro, in un altro ufficio della tua azienda o in un’altra azienda. Gli spostamenti non sono mai indolori. Tocchi un punto, risponde l’intero sistema…”.
Con il termine avvicendamento l’attenzione viene indirizzata sui passaggi di responsabilità fra chi lascia e chi subentra:
“… la mobilità aziendale è l’insieme degli spostamenti, gli avvicendamenti sono i processi di cura delle consegne. La mobilità guarda agli spostamenti degli individui, l’avvicendamento focalizza le modalità di subentro: quando lasci ti devi porre il problema che il tuo gruppo continui a funzionare, e quando arrivi di come essere operativo, anche se a volte ti lasciano i problemi da sbrogliare!”.
Non sempre la mobilità provoca avvicendamenti fra soggetti: nelle riorganizzazioni si può cambiare posto e ricoprire una nuova posizione, in precedenza non esistente. Oppure si può lasciare una posizione di lavoro senza che venga riassegnata ad altri. Mobilità e avvicendamento sono due costrutti che identificano due aspetti non esattamente sovrapponibili. Una cosa si può pero immaginare: che la mobilità, il cambiare posto di lavoro, richieda una qualche attenzione all’avvicendare le proprie esperienze professionali lungo la linea del proprio percorso lavorativo. La mobilità è un cambiamento e i cambiamenti sono sempre un po’ destabilizzanti, chiedono di essere curati, anche se a volte sono preziose occasioni per riattivare energie e nuova voglia di investire nel proprio lavoro. L’attenzione agli avvicendamenti (interni e fra colleghi/e) è un modo per rendere la mobilità un po’ meno meccanico-oggettiva e un po’ più processo con complessità tutte da curare.
Ragionando in termini generali ci è sembrato di poter raggruppare le ragioni che stanno alla base della mobilità lavorativa in quattro categorie. [Naturalmente è possibile che altre ragioni ci siano sfuggite e ogni integrazione è benvenuta.]
Naturalmente una ragione non esclude le altre. E diverse motivazioni possono coesistere e influenzarsi. A volte le organizzazioni (le figure dirigenziali in particolare, ma anche i colleghi/e) sembrano dimenticare che ci sono ragioni personali che intersecano le dimensioni lavorative. Qualcuno degli intervistati si stupiva o si fermava a riflettere sulla pluralità di ragioni che nel suo personale percorso professionale avevano alimentato il desiderio di cambiare o alla fine avevano fatto propendere per cambiare o per restare. Non si cambia semplicemente perché demotivati (anche se può succedere) e non si cambia solo per andarsene, così… Si cerca i cambiare per esigenze personali e famigliari, e anche per ragioni professionali. Certamente i processi di mobilità mettono in risonanza le dimensioni dell’identità professionale e dell’appartenenza organizzativa, il senso del proprio lavoro sul piano soggettivo e i legami con l’organizzazione e le persone che vi lavorano (Bochicchio, 2011). La mobilità lavorativa attiva emozioni e desideri, è un cambiamento faticoso, non solo per la persona, ma per il gruppo di lavoro e anche, spesso, per l’organizzazione.
Se si ragiona degli effetti della mobilità nelle organizzazioni o fra organizzazioni, accade che la rappresentazione si faccia così semplice al punto da essere descritta come il gioco del quindici che (a torto) si ritiene ammetta sempre soluzioni. Abbiamo chiesto per quali ragioni un’organizzazione ha l’esigenza di fare spostamenti. Queste (rapidamente) le risposte raccolte:
Tra le persone intervistate qualcuno ha sostenuto che la pratica delle mobilità, in particolare per le figure che hanno responsabilità manageriali, è motivata dall’esigenza dell’organizzazione di provocare cambiamenti salutari:
“Molte istituzioni prevedono la rotazione periodica delle posizioni di responsabilità: è un modo per tenere viva l’organizzazione, provocare cambiamenti, diffondere conoscenze, promuovere varietà ecologica e salutare: fanno così la Chiesa e l’Esercito, e le multinazionali. Perché non dovremmo farlo noi?”
Altri però hanno sottolineato che la mobilità spesso mostra il lavoro autoreferenziale delle organizzazioni.
Una ulteriore ragione per promuovere la mobilità riguarda il recepimento della normativa anticorruzione (legge 190/2012 – Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione). L’organizzazione per la quale stiamo lavorando è una società a controllo pubblico che applica le disposizioni della legge 190/2012 (articolo 1, comma 34). In particolare l’articolo 1, comma 10, lettera b della legge stabilisce che venga assicurata la “rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi reati di corruzione”. Si cambia anche per prevenire ‘avvinghiamenti’ disfunzionali.
Alcuni dirigenti hanno dichiarato che le mobilità vanno disincentivate per non mettere in difficoltà l’operatività degli uffici (posizioni che ci sono sembrate tranchant: in prima battuta non hanno ammesso repliche, né la possibilità di confrontare punti di vista divergenti).
Alcune figure di coordinamento hanno dichiarato che le figure dirigenziali hanno il diritto procedere con mobilità coatte. Sarebbe nel loro diritto, non solo sul piano della ammissibilità contrattuale (gli spostamenti potrebbero essere eventualmente legittimi sul piano strettamente formale), quanto dal punto di vista dell’esercizio del ruolo di direzione: è nelle prerogative di un manager spostare le persone a piacimento, senza consultarle e senza preavviso.
Alcune figure collocate in posizione operativa hanno sostenuto che la mobilità non solo è un diritto che non richiede di essere negoziato con l’organizzazione, ma che è lecito attivare una sorta di luddismo a bassa intensità quando le richieste di mobilità vengono rigettate.
Sullo sfondo sono rimaste da approfondire le mobilità e gli avvicendamenti temporanei e le forme di spostamento parziale che determinano part-time in collocazioni diverse o forme di job-sharing tutte da investigare negli effetti personali, operativi e organizzativi.
Avallone F., Farnese M.L. “La convivenza organizzativa”, in Argentero P., Cortese, Piccardo C. (a cura di), Psicologia del lavoro, Cortina, 2008, pp. 289-313.
Bochicchio F., Convivere nelle organizzazioni. Significati, indirizzi, esperienze, Cortina, 2011.
Ghisleri C., Colombo L., Piccardo C., “La conciliazione tra lavoro remunerato e resto della vita”, in Argentero P., Cortese, Piccardo C. (a cura di), Psicologia delle risorse umane, Cortina, 2010, pp. 257-274.
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